Incubi di due madri, una favola horror
di Samanta Schweblin

A proposito di “Distanza di sicurezza”

di / 22 ottobre 2020

Osservato da una certa angolazione, il romanzo di Samanta Schweblin Distanza di sicurezza (Sur, 2020) è un esemplare racconto di fantasmi. Ma di cosa ha bisogno una storia di fantasmi per essere una buona storia di fantasmi? Certamente di una tensione narrativa costante, nutrita da un senso di minaccia che si posi su azioni e pensieri dei personaggi come una patina disturbante o una condanna; ma anche dell’enigma, del non-detto che risiede nascosto tra le righe, e che per sua natura è un segreto immobile, inerte proprio perché tanto spaventoso. Sono la vita – irrequieta, veloce, rumorosa – che vuole mantenere la sua condizione, e la morte – silenziosa, sacrale – che la chiama invece verso di sé. Queste due matrici, l’agitazione vitalistica e il mistero pacato, corrono su un filo sottile, che necessita di un costante riequilibrarsi tra le parti per evitare di sfaldarsi.

Gli spettri di Schweblin non sono fantasmi veri e propri; si configurano più che altro come paure distruttive: quella della perdita, quella della responsabilità, quella della colpa; il rapporto madre-figlia alla base della storia è fantasmatico di per sé, perché fin da subito lo percepiamo come instabile, vicino alla rottura, sospeso drammaticamente tra le due forze della vita e della morte. Il romanzo, già pubblicato da Rizzoli nel 2017, viene riproposto ora da Sur che, dopo aver dato alle stampe Kentuki, l’ultimo libro di Samanta Schweblin, sembra aver scommesso su questa scrittrice argentina poco più che quarantenne. Stiamo parlando d’altronde di una delle narratrici più talentuose del panorama sudamericano, che a una scrittura moderna e fulminante unisce continui rimandi al genere fantastico tipico della letteratura argentina.

Il libro comincia – e prosegue – sulla scia di un dialogo surreale. Siamo in un ospedale; c’è una donna malata, Amanda, che parla con un bambino, David. Tutto è confuso e buio. David non è il figlio di Amanda, ma quello di Carla, la sua vicina. I due parlano, cercano di ricostruire, di comprendere perché lei sia lì, di «capire qual è il momento esatto in cui arrivano i vermi», come spiega David. Quali vermi? E quale momento? Ma soprattutto, dov’è Nina, la figlia di Amanda? Perché non sono insieme? Per scoprirlo non c’è altro da fare che ricordare, riordinare le idee; cos’è successo negli ultimi giorni? Guidata dalle parole enigmatiche di David, Amanda racconta, rievoca e racconta. La donna però è un narratore incerto: la sua storia, imprigionata tra le maglie del ricordo, è sospesa, a tratti disturbata; assomiglia a un sogno lontano nel tempo, a un incubo che si vuole a tutti i costi dimenticare.

Amanda ricorda di essere in giardino, in vacanza, e poi dentro la sua auto parcheggiata: è la scena iniziale di questa vicenda. Vicino a lei c’è Carla, una donna molto bella per la sua età, e al contempo leggermente perturbante. Amanda l’ha conosciuta durante la vacanza, pochi giorni prima: la donna infatti abita nella campagna dove lei ha affittato una casa con la sua famiglia. Nell’auto Carla le racconta di come David, suo figlio, sia rimasto quand’era piccolo intossicato dall’acqua di un ruscello, e di come per salvarlo una donna misteriosa che vive in una casa verde abbia trasferito l’anima del bambino in un altro corpo, facendo in cambio giungere in quello di suo figlio lo spirito di qualcuno – o qualcosa – di sconosciuto.

Proprio a causa di questa confessione folle e terrificante, Amanda si ritroverà invischiata in una spirale di paranoia e controllo maniacale, e il suo tranquillo luogo di vacanza si trasformerà in un attimo in un universo subdolo. Riuscirà a proteggere Nina? Farà sì che non le accada niente di male? I pericoli sono in agguato, sempre e dovunque, ma l’importante è mantenere stabile la distanza di sicurezza – un filo immaginario che collega mamma e figlia, e che, se le due si allontanano troppo, se Amanda perde Nina di vista, rischia di spezzarsi, provocando conseguenza indicibili.

In Distanza di sicurezza si ritrovano molti topoi della letteratura fantastica e dell’orrore, dalla paura di ciò che ci è più vicino a un certo disagio nei confronti dell’infanzia; tra questi è soprattutto il tema del sostituto malvagio, pur sviluppato in maniera inedita, a rendere la lettura del romanzo particolarmente inquieta – si potrebbe paragonare questa storia a un famoso racconto di Julio Cortázar, “Lontana”, dove si parla di doppi, di alter ego, e in cui si percepisce la medesima, alienante, atmosfera. In qualunque momento, nel racconto di Schweblin, pare che sia in arrivo una sciagura, una catastrofe che si riconosce in ogni rigo, in ogni oggetto descritto. Tutti i personaggi tendono così a deformarsi, ad assumere un aspetto contraffatto. Sembra quasi che non ci siano buoni in questa storia; è tutta la campagna – tutto l’universo – a piegarsi in un ghigno malefico e doloroso; è il mondo stesso a essere avvelenato. Nel loro dialogo, David si sofferma spesso con Amanda sull’importanza dei dettagli; è proprio nei dettagli, infatti, nelle cose più piccole, che si cela una minaccia che è troppo impercettibile per spiegarsi del tutto o per esplodere definitivamente.

Samanta Schweblin, inserendosi a pieno titolo nel filone del realismo magico, confeziona in realtà anche una minuziosa radiografia della maternità e delle sue paure. Distanza di sicurezza è in alcuni momenti una favola horror, in altri una parabola al femminile che tocca corde quasi impossibili da affrontare a mente lucida. Con l’andamento del thriller, la scrittrice conduce il lettore in un abisso male illuminato; lo porta, senza che lui neanche se ne renda conto, a porsi delle domande scomode, a proiettarsi delle immagini potenti e antichissime, come quella di una madre che ha il terrore di perdere sua figlia, o di un branco di vermi che strisciano da qualche parte, dentro di noi.

 

(Samanta Schweblin, Distanza di sicurezza, trad. di Roberta Bovaia, Sur, 2020, pp. 143, euro 17, articolo di Claudio Bello)
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