Effetti di una mala gestione della morte

“Trilogia della catastrofe” di Carbè, La Forgia e D’Isa

di / 10 novembre 2020

cover trilogia della catastrofe

La raccolta Trilogia della catastrofe, edita nel maggio di quest’anno da effequ, è composta da tre capitoli apparentemente non comunicanti tra loro e scritti da autori diversi – Emmanuela Carbè, Jacopo La Forgia e Francesco D’Isa: «Nessuno dipende dall’altro eppure nessuno, preso da solo, esaurisce il proprio senso», ma in verità esiste un percorso tematico che li riunisce e che ruota intorno al termine “catastrofe”, tale percorso è scandito in tre tempi: Il principio, il durante e la fine.

Quando pensiamo a una catastrofe, subito ci immaginiamo qualcosa di estremamente tragico o quantomeno altamente distruttivo, qualcosa per cui non c’è rimedio. Ma il termine in oggetto non deve indurci necessariamente a pensarlo in modo prettamente negativo. Com’è scritto nella premessa che apre la raccolta infatti, e proseguendo nella lettura, ci accorgiamo che la prospettiva privilegiata per significare una catastrofe, e nondimeno più vicina etimologicamente all’origine del termine, è quella che la interpreta come «qualcosa che era, che accadde e che, ribaltando la situazione, rovesciando i punti di vista, porta a qualcosa che sarà».

Catastrofe, dunque, intesa come rovesciamento di precedenti assetti, come un rivolgimento dello status quo: se ciò avviene in meglio o in peggio, la questione può essere tanto opinabile quanto relativa. Ma circoscrivendo il campo alla situazione storica che stiamo attualmente vivendo, è chiaro che i risvolti ulteriori, gli avvenimenti che ci attendono, sembrano non dare adito a molte speranze di un futuro positivo.

Mi riferisco in primo luogo alla situazione nata dallo scatenarsi della pandemia del Covid-19, che tuttavia va a sommarsi ad altri fattori di rischio già ben noti, come per esempio il surriscaldamento climatico, che da tempo ci preannunciano un futuro tutt’altro che roseo, per noi come per l’intero pianeta.

Proprio in questi giorni mi è capitato di leggere un articolo incentrato su uno studio che prospetta la tutt’altro che remota possibilità che le emissioni di CO2 e il disboscamento nel territorio dell’Amazzonia, porteranno alla trasformazione della famosa foresta pluviale in una savana. Una cosa che solo qualche decennio fa sembrava quasi impensabile, o a ogni modo molto improbabile.

Sembra infatti così strano, oggi, ritrovarsi a pensare a come talvolta il disastro definitivo di questo pianeta si stia svolgendo proprio sotto i nostri occhi, e passare oltre riprendendo il ritmo solito delle nostre vite. Questa serie di considerazioni si riallacciano alle tematiche trattate da Francesco d’Isa nell’ultima parte di questo “saggio ibrido” dal titolo perentoriamente ammiccante.

Non si riesce a capire, o non si vuole capire, come mai, pur avendo sotto gli occhi questa devastazione imminente, si continui indisturbati a perpetrare un sistema sociale dannoso che ci ha portato a questo risultato. Già negli anni sessanta il filosofo tedesco Gϋnter Anders affermava che «l’occupazione della nostra epoca è stornare lo sguardo».

Più che da una colpa morale, tutto ciò è probabile sia causato, suggerisce D’Isa, da una sorta di miopia congenita alla mente umana, e cita il premio Nobel per l’economia Daniel Kahneman il quale afferma : «Il nostro cervello risponde in modo più forte alle cose che sappiamo per certo. Più c’è incertezza, meno siamo in grado di agire».

Tutto ciò, dunque, sembra indurre l’individuo, in modo consapevole o meno, a non modificare in niente la sua condotta e a ignorare i segnali della catastrofe, fino a quando gli effetti di quest’ultima non si impongono alla sua attenzione in tutta la loro evidenza. Basti pensare alla nostra recente e tutt’ora in atto esperienza dell’epidemia del Covid-19: quanto è stato sottovalutato il problema? Quante avvisaglie i nostri governanti avevano ricevuto al fine di prevenire e agire tempestivamente, fino a che il disastro non ci è piombato addosso in tutta la sua violenza cogliendoci totalmente impreparati? «Eravamo sicuri che si sarebbe verificata, ma a quanto pare non riusciamo a reagire a rischi certi ma indeterminati». Sembra allora che sia valso il principio secondo cui «l’unico modo per convalidare una previsione con certezza è aspettare che si avveri».

Stando così le cose, come si può, almeno da un punto di vista filosofico, non essere tentati di farsi trascinare lungo la china di un desolante pessimismo? Questa risposta a una situazione di crisi globale sarebbe fin troppo facile: «Non intendo persuaderti che la vita fa schifo o che ci si debba suicidare in quanto schiavi di un diktat impostoci ancor prima di nascere», nonostante il fatto che le teorie radicalmente catastrofiste insieme alle concezioni altrettanto radicali sull’incontrovertibile corruttibilità e sostanziale negatività dello statuto ontologico dell’esistente abbiano la loro dignità e ragione di esistere, tuttavia qui non si tratta di incaponirsi sulle cause remote, piuttosto cercare di trovare una soluzione o più soluzioni che non siano mere cure palliative, prendendo coscienza del fatto che «la diagnosi è chiara, il mondo ha un tumore. Bisogna capire se è curabile», e tenendo presente inoltre che «le catastrofi non sono tutte uguali e se è possibile mitigare anche di poco l’entità di un disastro, credo che abbiamo il dovere morale di agire in tale direzione – e, anche lasciando perdere la morale, è banalmente la cosa migliore da fare».

Ecco che D’Isa ci fornisce una riflessione tanto semplice quanto disincantata riguardo la nostra situazione: tutto ha origine dalla paura della morte ma soprattutto dalla cattiva gestione di quest’ultima. Se in un primo momento siamo portati a considerare la paura della morte e l’impulso all’autoconservazione come le matrici originarie di ogni comportamento umano e animale teso alla sopravvivenza, è pur vero che questa causa primordiale non esaurisce l’intero spettro dei suoi effetti, essa si limita, afferma D’Isa, solamente a generarli : «È così che la pulsione a evitare la morte ci ha portato a sviluppare effetti variegati e talvolta controproducenti».

Le tante deviazioni dalla sorgente primaria – l’istinto di sopravvivenza e l’evitamento della morte – rinforzate dall’abitudine, hanno permesso l’adozione di condotte distruttive e il formarsi di assetti altamente nocivi per l’uomo e l’ambiente, del tutto incoerenti con le pulsioni di partenza.

I mezzi tecnologici a nostra disposizione ci hanno portato troppo lontano dalla nostra vera natura, fino a raggiungere una situazione limite che copre un ampio quadro di effetti distruttivi che sono sotto i nostri occhi.

Si tratterebbe a questo punto, come suggerisce D’Isa, di affrontare la paura della morte ma soprattutto ammettere che i nostri attuali mezzi hanno superato largamente la nostra capacità di gestirli, il fatto di riconoscere questa nostra inadeguatezza ci porterebbe forse a una visione più sobria su ciò che siamo e dove siamo diretti, contribuendo in maniera maggiore a permetterci di trovare delle soluzioni possibili e, cosa altrettanto importante, alla nostra portata.

 

(Emmanuela Carbè, Jacopo La Forgia, Francesco D’Isa, Trilogia della catastrofe, effequ, 2020, pp. 208, euro 15, articolo di Daniele De Cristofaro)

 

 

 

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