Il desiderio di vivere come gli altri

di / 18 novembre 2020

Alex Infascelli decide di fare con Mi chiamo Francesco Totti un docu-film su Francesco Totti. Un personaggio che dagli anni Novanta, a Roma, ha surclassato re, imperatori, papi. Attori e cantanti. Che ha reso Giulio Cesare un poveraccio, Romolo e Remo due sbandati. Alberto Sordi un attorucolo e Venditti uno strimpellatore. Per parlare di Totti a Roma bisogna essere coraggiosi.

Un essere umano che si è trasformato in entità che si respira ancora oggi tanto accanto al Colosseo, quanto nei vicoli delle periferie, tanto nel riflesso di Castel Sant’Angelo dentro il Tevere, quanto lungo i corridoi della metro B. Totti è andato a fondersi con la città in cui è nato e dove ha vissuto, dove continua a vivere e dove non potrà che continuare a esistere. Mi chiamo Francesco Totti, alla fine, era talmente facile da realizzare che sbagliare sarebbe stata la cosa più ovvia da aspettarsi.

L’espediente più furbo possibile sarebbe potuto essere quello dell’esaltazione del giocatore e dell’essere umano al limite della beatificazione. Estremo, ma in fin dei conti condivisibile. Il talento spropositato di Totti nel calcio avrebbe giustificato qualsiasi cosa, sapendo poi che Totti non è un personaggio cannibale come, per esempio, può esserlo Michael Jordan. In più, la romanità che gronda in ogni istante della sua vita sarebbe stata il collante perfetto per fare un ritratto della bellezza del suo calcio e quella di Roma, tanto romantica quanto decadente. Ma il risultato sarebbe stato, probabilmente, mediocre e stucchevole. Infascelli riesce, invece, a narrare una storia senza impantanarsi in certe logiche, riuscendo per quanto possibile a staccarsi da criteri di santità, andando a scavare nella contraddizione esistenziale stessa di Totti.

L’unica voce che poteva narrare Totti nella storia di Totti, quindi, non poteva essere che quella di Totti. Infascelli lo capisce e decide di declinare il racconto attorno ai suoi tic verbali, alle sue pause, al suo tentennare e alla sua strafottenza bonaria.

Mi chiamo Francesco Totti è, quindi, un lavoro di pancia. È un lavoro di pancia, ma pensato. Perché Infascelli riesce a evitare le trappole della gloria cieca, il prostrarsi di fronte alla divinità. Quello che fa è accompagnare quest’esperienza eccezionale di Roma da quel 28 marzo 1993 fino al ritiro del 28 maggio 2017. Ci sono i filmini di famiglia e le imprese con la Roma, il rapporto con Ilary Blasi e la vittoria dei Mondiali del 2006, intervallati da un Totti del presente che si muove in uno stadio Olimpico onirico, che ha i contorni dell’incubo, vuoto e senza luci.

Ciò che esce fuori nelle quasi due ore di docu-film è l’ossessione del pallone di Totti, che però non sembra diretta nei confronti del calcio in sé, ma figlia della paura dell’ipotetica non esistenza stessa del calcio. Come se avesse vissuto con il terrore che tutto potesse prima o poi manifestarsi come una gigantesca allucinazione. Il che, da un certo unto di vista, avrebbe avuto le fattezze di una libertà quasi mai sperimentata. Quando racconta che vorrebbe vedere Roma senza essere riconosciuto, c’è un grosso snodo del conflitto. A lui è preclusa Roma. Ma lui non poteva essere senza calcio. Totti vive, in fin dei conti, una sua Roma mentale.

Per quanto nella sua formazione Totti abbia avuto come idolo Giannini, il paragone non può funzionare. Mai. Il grande rimpianto di Totti sembra essere proprio il fatto di non esser stato uno qualsiasi (un romano qualsiasi) che abbia potuto ammirare Francesco Totti. Ma non necessariamente uno qualsiasi. Semplicemente qualcuno che non fosse Francesco Totti per vivere l’esperienza di milioni di tifosi che hanno potuto assorbirlo per più di vent’anni di carriera. Essere Francesco Totti gli ha precluso la più grande gioia di un tifoso romanista, al pari del tifare la Roma: poter godere di Francesco Totti. Infascelli è bravo a captare e a far emergere quest’aspetto.

La vita di Totti è sempre stata scissa tra queste due condizioni, una terrena e l’altra divina.  Ha avuto la fortuna e la sfortuna di eccellere in un mestiere in cui il corpo era fondamentale come estensione del suo genio calcistico, ma anche il primo grande ostacolo. Deteriorandosi, lo avrebbe abbandonato a qualcosa a cui non sarebbe mai potuto essere pronto. Ora si trova a essere Francesco Totti non potendo più esserlo su un campo di calcio. Non potendo, allo stesso tempo, essere un romano qualsiasi.

Il racconto vive sulle corde dell’ironia. Un’ironia ingenua. Ed è grazie a questo espediente retorico, infatti, che Totti sembra poter sopravvivere a tutto quello che gli è accaduto. In realtà non ho finito di giocare, ragazzi, è tutta uno scherzo, prima o poi tornerò in campo.

È su quel filo invisibile che ha cercato di districarsi nel magma densissimo della sua carriera, probabilmente anche per cercare di colmare il silenzio assordante di certi episodi (lo sputo a Poulsen, il calcio a Balotelli). Totti da calciatore era un istintivo, sia nel leggere i tempi di gioco, sia nell’affrontare i momenti in cui le cose non giravano come avrebbe voluto lui. Ma di base, come dice quando ripensa a certi fatti, è un buono.

Totti è qualcosa che senti appiccicato addosso alle persone a Roma, lo annusi, riesci a vederlo. Ancora oggi, a tre anni dal suo ritiro. Infascelli è stato bravo a mettersi a disposizione di una storia del genere, riuscendo a calibrare in maniera equilibrata l’enorme mole di emozioni che si porta appresso.

(Mi chiamo Francesco Totti, di Alex Infascelli, 2020, documentario, 101’)

 

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LA CRITICA

Alex Infascelli riesce a parlare di Totti senza scadere nel melenso, mettendo in evidenza la difficoltà di Francesco Totti di essere appieno Francesco Totti.

VOTO

7/10

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effe

“effe – Periodico di altre narratività” numero dieci

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