Abitare è un mestiere difficile

“Configurazione Tundra” di Elena Giorgiana Mirabelli

di / 22 febbraio 2021

Copertina di Configurazione Tundra di Mirabelli

Quanto possono ospitare poco più di cento pagine? Quanto volume gassoso e immaginifico può restarvi condensato? Il tempo di qualche infausto ingorgo sull’autobus? Una spicciolata di notti da addomesticare? Ebbene, in questo caso, come in infiniti altri, la volubile scommessa della letteratura smentisce tutti tranne se stessa. E ci riserva un testo di agilità solo apparente, un’architettura poderosa travestita da novella.

Configurazione Tundra (Tunué, 2020), esordio di Elena Giorgiana Mirabelli, è un’operazione ardimentosa. Complessa, iperstrutturata, dove ogni paragrafo ha il peso specifico di un pianeta gioviano. All’interno di Tundra, città pianificata secondo modelli teorici ed estetici molto vincolanti, la dissidente Diana, tramite e voce narrante, trascorre un periodo di riposo in un Altrove, alloggio abitato in precedenza da qualcuno a sua volta indirizzato in un diverso Altrove. L’Altrove, come esplicita e imposta richiesta, deve assurgere a spazio ripulito, forzatamente nudo, una contea neutralizzata in cui ritemprarsi per qualche mese.

A Diana, però, capita di insediarsi in quella che fu la casa di Lea, figlia di Marta Fiani, architetta e ideatrice del progetto Tundra. E Lea decide di disattendere la norma, di non smacchiarsi da quelle pareti. Lea non spoglia l’appartamento dalle proprie impronte. Non solo, semina volutamente frattaglie di memoria. Foto, diari, lettere disperse nei cassetti, frammenti fossili di una storia che Diana si trova a ripercorrere, come fosse una medium. Evocare schegge, odori, tracce, spirali di passi per illustrare due esistenze che si specchiano dentro una visione.

A spiccare è quella demiurgica di Marta, procreatrice di un sistema-bioma rigidamente disciplinato per pilotare le direzioni dei suoi occupanti. Donna caleidoscopica, stratificata, come lo spazio urbano che pone in essere, Marta si ispira a principi logico-spirituali che finiscono col permeare ogni aspetto della sua condotta. Dal cibo alla vestizione fino alla gestione della sua maternità, l’architetta Fiani si nutre di linee e superfici, per prospettare un punto d’osservazione fortemente definito. In cui di sfuocato resta solo Lea.

«Il rapporto tra teoria e prassi può essere spiegato solo attraverso il grande grafico dell’Enneagramma. Non c’è nulla che non possa essere compreso seguendo le linee, perché è la linea che dirige l’azione». Marta stabilisce di risiedere sul bordo per scrutare e concepire, è quello il suo habitat, come misura del confine per filtrare mondo interiore e proiezioni esterne. «Ci sono diversi modi per conoscere la realtà. Io ho scelto di situarmi sul bordo. Di stare lì, sul limite estremo. Stare sul bordo è stare come dentro e fuori contemporaneamente. […] Il mio bordo è il mio corpo. Permetto che delle informazioni mi varino, mi riattivo e autoregolo. Ritrovo il mio equilibrio. Mi stabilizzo».

Tutto in Tundra è realizzato come un plastico a grandezza naturale per minimizzare l’errore, foderare l’affanno, costellare gli atti umani di traiettorie guida. Pensare e costruire per rendere gli abitanti “ottimizzati”, perfettamente inscatolati nel loro ineccepibile alveare. «Se riuscissimo a creare un sistema emotivo rigido non sarebbe tutto molto più semplice? Se riuscissimo a regolare e regolarizzare il desiderio e stilassimo una lista di agenti che non riescono ad attenersi al protocollo, non saremmo più vicini all’Eden […] Una volta raccolti i dati delle mappe esistenziali di ogni agente, la Guida riuscirà a possedere una statistica veridica e ad agire per il nuovo Orizzonte armonico».

Questa la volontà di Marta, convogliare comportamenti e pensieri su binari iper-razionali e semplificanti, in modo che l’unicità, la variante imprevedibile, il prurito sotto la crosta, siano etichettati come aberrazioni della grazia, dell’euritmia auspicabile. Progettare un complesso dove i sentimenti trovano un terreno artico e desertico in cui è difficile attecchire. In cui forse tutti sono innocui, intenti a incanalarsi nei loro sentieri purificati. Un universo forse non molto distante dal nostro, altrettanto sapientemente ammobiliato.

Il focus di Diana, anch’esso liminare come implica la sua funzione, oscilla continuamente tra lei, ciclopica anche quando assente, e sua figlia, che tesse per procura la trama di questa archeologia. Non è facile per Lea preservare una regolarità, una simmetria salvifica. E Diana non fa che vederla. La visualizza, riproduce nella mente ciò che lei ha sparpagliato tra le mura. La vede, sperimentare il piacere e subire il dominio. Mettere alla prova i suoi margini nella relazione con Ettore. Così come farà lei stessa, risucchiata da questa scoperta e costretta a rileggersi mentre scrive di loro, nel gioco ineludibile e sfinente di riconoscersi nell’Altro mentre si è immersi nell’Altrove.

Configurazione Tundra è un breve trattato di architettura, un memoriale e un romanzo distopico. È una sfida concettosa e concettuale che chiede energie ricettive non così comuni. Affaticante, spaesante, esigente. Senza la leggerezza delle Città invisibili e la follia delle biforcazioni di Borges. Sicuramente una prova coraggiosa e succosissima. Un impegno molto più lungo della sua durata.

 

(Elena Giorgiana Mirabelli, Configurazione Tundra, Tunué, 2020, 106 pp., euro 13,50, articolo di Cristiana Saporito)

 

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