L’avventura del Negrita: alle origini della tratta africana

“Un oceano, due mari, tre continenti” di Wilfried N’Sondé

di / 6 aprile 2021

Cover di Un oceano, due mari, tre continenti

Per un caso fortuito, e per metà tristissimo, mentre in Italia si promuove la traduzione di un libro congolese (Wilfried N’Sondé, Un oceano, due mari, tre continenti, 66thand2nd, 2020), il 22 febbraio scorso due italiani vengono uccisi in Congo (l’ambasciatore Luca Attanasio e il carabiniere Vittorio Iacovacci, insieme con l’autista locale Mustapha Milamb), a sessant’anni di distanza dall’eccidio di Kindu, dove trovarono la morte 13 aviatori italiani tra l’11 e il 12 novembre 1961. I due fatti di cronaca non c’entrano nulla con il romanzo di N’Sondé, ma ci ricordano quanto poco sappiamo, e ci viene raccontato, dell’Africa: un continente percepito come “terzo mondo”, le cui sciagure dipendono in gran parte dai predatori stranieri che l’hanno maltrattato fino a prosciugarlo. Eppure è proprio dall’Africa che i primi ominidi sono partiti a “colonizzare” il mondo, ricevendo in cambio solo disprezzo e vile sfruttamento.

La storia e la geografia possono essere i due strumenti utili con i quali leggere tra le pagine del romanzo, o tentare di approfondire la nostra conoscenza sul Congo odierno, una terra abitata da circa 8.000 anni, «che nella loro lingua significava “il luogo dove non bisogna arrendersi” per non dimenticare mai che avevano dovuto dar prova di coraggio, d’audacia, e che avevano preferito affrontare l’ignoto piuttosto che accettare passivamente il fato».

Concepito come romanzo storico, Un oceano, due mari, tre continenti è molte cose insieme: una storia vera riportata alla luce da Wilfried N’Sondé, nato in Congo nel 1976, ma naturalizzato francese; il reportage di un antico esploratore, Nsaku Ne Vunda, che nel 1604 attraversa tre continenti prima di giungere alla sua meta; la confessione dolorosa di un cristiano di fronte alle bassezze compiute dai cattolici («la passione religiosa era divenuta per loro un pretesto per dare libero sfogo alla loro sete di ferocia»); la preghiera dolente di un uomo contrario a qualsiasi forma di malvagità («non riuscivo ad accettare che Dio si aspettasse dai suoi servitori un esercizio tirannico della Sua potenza, e che in nome Suo si potessero commettere atti che rappresentavano un insulto alle Sue esortazioni all’amore»).

Un oceano, due mari, tre continenti ha il suo cuore pulsante nella lucidissima denuncia lanciata dal protagonista, che è poi il motivo del suo lungo viaggio: «Le macchinazioni del re, le ambiguità dei miei fratelli ecclesiastici, i calcoli dei mercanti, la cecità degli esecutori, tutta quella melma umana nella quale mi dibattevo da varie settimane aveva reso più forte la mia determinazione. Il mio proposito rivelava il mio dovere cristiano e il mio profondo attaccamento ai valori dei miei antenati. Non avendoli potuti liberare dalle loro catene, ero deciso a consacrare la mia vita a impedire che il ricordo del calvario degli schiavi fosse dimenticato».

Quattro secoli fa Nsaku Ne Vunda, battezzato don Antonio Manuel, lascia il Congo per denunciare al Papa la piaga dello schiavismo, inconsapevole che nessuno lo avrebbe sostenuto nel tentativo di risollevare il suo paese da una deriva inaccettabile: «Agli schiavi che stavano per essere deportati in Brasile si aggiungevano i figli di Israele, altre vittime dell’Inquisizione, musulmani spaventati e le ombre dei miei compagni di prigionia, spettri anonimi e muti che giravano in tondo nella bruma».

Ancora oggi la schiavitù non è stata sradicata, ma perpetrata con modalità differenti rispetto al passato; non mancano mai notizie di migrazioni di massa, non più coatte come un tempo, e apparentemente volontarie, su navi ingolfate di esseri umani in balia delle perturbazioni: sebbene non solchino più l’oceano ma il Mediterraneo, queste imbarcazioni ricordano moltissimo quella vissuta da Wilfried N’Sondé. «Cavalcavano ad andatura sostenuta, trascinandosi dietro, senza alcun riguardo, una fila di prigionieri uniti gli uni agli altri per il collo, con le mani legate. Donne, anche uomini, vecchi e bambini barcollanti che avevano difficoltà a seguire il ritmo. Avevo attraversato due volte l’Atlantico, viaggiato fra tre continenti per ritrovare la stessa immagine degli schiavi bakongo immersi nella nebbia. La stessa tristezza. Gli stessi lamenti. Lo schiocco delle fruste. I singhiozzi, i volti sconvolti della sofferenza».

I metalli d’un tempo sono diventati nel Congo di oggi il coltan e il cobalto, utilizzati soprattutto dai produttori di telefonia mobile, a incrementare lo sfruttamento e le guerriglie interne per accaparrarsi un sottosuolo ricchissimo anche di petrolio, oro, argento, uranio. Ciò a conferma che l’antropocene industrializzato non ha dimenticato l’Africa, un continente che non ha mai smesso di rappresentare il pozzo del mondo: quello dove si attinge per sempre nuove materie prime, e quello dove si getta la spazzatura inutile. «Sulle nostre terre, sbarcavano solo individui senza scrupoli ossessionati dal denaro, pronti a saccheggiare fino in fondo i metalli che il nostro suolo celava, gli animali e gli esseri umani». Prosciugato di ogni bene, i ricchi sanno fin troppo bene come approfittarne, anche in un’epoca in cui il mondo sembra molto più vicino, e umano, di tanti secoli fa.

Il protagonista impiegò, infatti, quattro anni per arrivare in Vaticano dal Congo. Eppure non si lamenta del viaggio; anzi, «circondato solo dai miei, a Boko, avrei vissuto in una povertà dell’animo e avrei imparato poco nel corso di una vita insipida e banale. Alla mercé dei paesi che avevo attraversato, avevo scoperto in me una sollecitudine verso le persone virtuose, animate da tenerezza e compassione».

Nsaku Ne Vunda è un uomo giusto, che non scende a compromessi con nessuno: i suoi connazionali, i colonizzatori o la Chiesa cattolica. Tutti coinvolti nella tratta degli esseri umani, e nel gioco di potere per arricchirsi sempre di più, non vengono giudicati, ma soltanto compianti per i compromessi a cui sono scesi. Lui è dalla parte dei più deboli, sempre. Sospinto da una fede salda, può essere preso a modello del vero cristiano, che non viene abbagliato dalla ricchezza.

Il suo corpo riposa ancora nella Basilica di Santa Maria Maggiore, fatto seppellire lì proprio da Papa Paolo V, che in sua memoria fece scolpire una statua, tuttora soprannominata “Negrita”, come venne appellato Nsaku Ne Vunda al suo arrivo a Roma. All’epoca considerato con superficialità l’ambasciatore del Congo, la sua missione viene oggi ricordata con forza dal romanzo di Wilfried N’Sondé. «Lentamente, si intrecciarono legami di fedeltà e di dipendenza tra gli uni e gli altri, differenze relative alla nascita di ognuno, e anche se le donne e gli uomini così offerti in dono restavano comunque esseri umani in tutto e per tutto, il loro status nella società era inferiore. Fu così che nel paese Congo ebbe inizio la schiavitù».

 

(Wilfried N’Sondé, Un oceano, due mari, tre continenti, trad. di Stefania Buonamassa, 66thand2nd, 2020, pp. 224, euro 16, articolo di Elisa Scaringi)

 

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