Comunicazione senza comunità

“La scomparsa dei riti” di Byung-Chul Han

di / 20 maggio 2021

Copertina di La scomparsa dei riti

L’improvviso scoppio della moda Vintage, i filtri per l’invecchiamento in stile polaroid su Instagram, un certo attaccamento verso il mondo analogico: fenomeni che con la dovuta attenzione si rivelano più complessi di una semplice forma di nostalgia.

Per esempio, credo sinceramente che delle trame delle decorazioni sui colletti delle camicie di mia nonna, da lei cucite alla mia età, mi catturi il fascino del non sapere come si faccia. Qualsiasi cosa mi si presenti sotto mano, se posso trovare il corrispettivo in un negozio polveroso del quartiere di San Frediano a Firenze quest’ultimo mi sembrerà sempre più bello, più vero. Ed è in fondo diventato una forma di feticismo il credere che un oggetto sia tanto più prezioso quanto più ha preso l’umido nella cantina di una palazzina anni Settanta. Prendo in mano una vecchia sveglia al mercatino del riuso e penso che abbia avuto un significato per qualcuno, che sia stata un regalo, sia stata desiderata, attesa, pensata e infine ricevuta in dono. Penso insomma, che contenga un valore in sé.

Dopo qualche tempo ho capito che questa forma di venerazione nasceva dal fatto che intorno a quell’oggetto, quella semplice sveglia, si avvolgeva l’itinerario di un rito con i suoi tempi e la sua liturgia. La si usava senza scadenza e entrava nel rigore delle cose automatiche che appartengono al quotidiano. Un rito, per essere definito tale, ha bisogno di una comunità che impieghi il suo tempo senza uno scopo, che festeggi senza un motivo, che ripeta azioni collaudate dall’uso. Oggi invece, questa forma di conoscenza è completamente perduta proprio perché, come dice Byung-Chul Han in La scomparsa dei riti (nottetempo, 2021), non vi è una comunità in grado di sostenerla.

È così che viene meno anche il senso dei simboli: se non esiste più una comunità non può esistere nemmeno un simbolo che deve essere riconosciuto come tale da un gruppo che vi ritrovi un senso collettivo. Forse per questo mi capita spesso, come a tanti della mia generazione, di sentire dai miei genitori piccoli aneddoti su come si facevano certe cose prima. Tutti questi racconti sono attraversati da una caratteristica: il tempo dell’attesa, della preparazione, un momento precedente in cui si svolgeva un rito necessario per ottenere una chiamata a un telefono pubblico, il conseguimento della laurea, la prenotazione di un albergo.

Nel suo libro Byung-Chul Han riprende una frase di Antoine de Saint-Exupéry (dalla Cittadella): «E i riti sono nel tempo quello che la casa è nello spazio. Perché è bene che il tempo che passa non dia apparentemente l’impressione di logorarci e disperderci come una manciata di sabbia, ma di perfezionarci. È bene che il tempo sia una costruzione». Forse è proprio questo l’elemento che ci affascina dei riti, il senso di costruzione collettiva, una compartecipazione che oggi sembra minata da un narcisismo esclusivo ed escludente, dalle gravi conseguenze emotive.

I riti, oggettivando il mondo e riconnettendo ciascuno all’Altro, creano una comunità anche senza comunicazione. Oggi però imperversa una sorta di incessante comunicazione senza comunità, un «baccano» in cui tutti giriamo a vuoto credendo illusoriamente di interagire con il mondo. È quindi riappropriandoci dei riti che potremo riaprire una società atomizzata al «senso di una vera connessione con l’Altro», sostiene Han, che – dopo aver teorizzato la “società della stanchezza” (i disturbi depressivi e la sindrome da burnout, dovuti all’eccesso di positività anziché dalla negatività, come segno dell’epoca), “l’agonia dell’eros” in cui sfocia l’incapacità autoreferenziale di relazionarsi con gli altri e la “società senza dolore”, terrorizzata dalla sofferenza – aggiunge un altro tassello al suo implacabile lavoro di critica del presente.

Molti sono i prestiti di celebri filosofi e pensatori della fase attuale del capitalismo citati in La scomparsa dei riti. L’autore ha validi motivi per questa scelta, alcuni sono stati davvero luminari. Hitckock sapeva bene di girare in bianco e nero: se tutto sembra la sfumatura dello stesso colore, basta infilare una lampadina nel bicchiere di latte dell’assassino per dare un indizio agli spettatori. Eppure, non riesco a fare a meno di notare la disorganicità di questo assemblaggio di frasi minime (a volte, massime moraleggianti), che fatica a delineare una teoria coerente. Soprattutto se si è abituati alle feconde e sistematiche riflessioni di Byung-Chul Han, critico di riferimento della società digitale e dell’antropologia neoliberale, c’è il rischio di rimanere disorientati dalla Scomparsa dei riti, nonostante l’indubbia ricchezza di stimoli (che certamente mi faranno curiosare al mercatino di San Frediano con occhi nuovi).

 

(Byung-Chul Han, La scomparsa dei riti. Una topologia del presente, nottetempo, 2021, trad. di Simone Aglan-Buttazzi, pp. 144, euro 15, articolo di Anita Fallani)

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