Una particella della generazione senza fiato

A proposito di “Stiamo abbastanza bene” di Francesco Spiedo

di / 9 giugno 2021

Copertina di Stiamo abbastanza bene di Spiedo

“Stiamo abbastanza bene” è un’asserzione comune, un modo di dire, una scappatoia detta a chi distrattamente chiede:“Come va?” Francesco Spiedo nel suo esordio letterario prova a definire il senso di una frase tanto vaga.

Stiamo abbastanza bene (Fandango, 2020) ha le vesti di un romanzo di formazione, in cui la struttura confessionale ricorda un’autobiografia. A parlare è Andrea, venticinquenne napoletano che col cuore infranto fugge a Milano senza sapere bene cosa aspettarsi e cosa cercare. Il libro, dunque, provando a elevare il particolare a universale attraverso gli occhi e l’esperienza del protagonista, vuole porre l’attenzione su una generazione senza fiato, disillusa ma caparbia. La narrazione, però, tutta in prima persona singolare, è inaffidabile; il lettore si ritrova a fare i conti con la realtà di Andrea, deve provare a comprendere le ragioni – non sempre razionalizzabili – di un individuo alle prese con la propria esistenza. Il tempo del racconto, per giunta, è il presente, è impossibile rilassarsi, gli eventi si susseguono, si accavallano, e tutto procede in un caotico turbinio. Spiedo ci catapulta nella testa del protagonista e lo fa attraverso uno stile leggero e asciutto che ricorda il linguaggio parlato e che, piccola nota amara, in alcuni casi pare sfuggire al controllo dello scrittore.

Senza avvisare nessuno, un giorno Andrea Lanzetta va a Milano. Un napoletano nel capoluogo lombardo: l’inizio di molte riuscite commedie italiane; il libro, come dimostra il ritmo tragicomico della storia, prende le mosse proprio da tale filone narrativo, ne sono presenti persino i tipici e immancabili cliché: la famiglia in ansia per un figlio immigrato, un futuro incerto e la cifra d’origine fermamente difesa. L’unica vera differenza è l’epoca in cui la migrazione avviene: siamo nel 2016 e Andrea fa parte della generazione nata dopo quella del precariato: i ragazzi che hanno dai venticinque ai trent’anni, coloro che nella vita si accontentano di stare “abbastanza bene”, che nell’assolutezza della felicità in fondo non ci hanno creduto mai.

La struttura del libro è geometrica, ben organizzata. Spiedo, attraverso la voce di Andrea, descrive i suoi personaggi in soggettiva, con pochi tratti. Ma nel contatto con l’altro si palesa l’ambiguità del protagonista in continuo bilico tra la voglia di solitudine e l’affannosa ricerca di un appiglio sentimentale per riuscire a sopravvivere al proprio disordine emotivo.

Andrea vive da solo, in un monolocale con una macchia di umidità sul soffitto che sembra peggiorare in maniera direttamente proporzionale al suo declino esistenziale. Inizialmente trova lavoro come sostituto di Don Enzo, il portiere del suo palazzo, napoletano come lui, che decide di aiutarlo e proteggerlo e che, dovendo andare in vacanza con la moglie per qualche giorno, gli chiede di prendere il suo posto a difesa dell’edificio sito in via Nino Bixio 14. Grazie a questo nuovo impiego ha modo di conoscere i condomini, tra cui i giovani figli della professoressa Colombo, Anastasia e Filippo, da tenere sotto controllo per l’abitudine di fumare una canna nel cortile prima di andare a scuola. Anastasia è la prima ragazza che Andrea incontra a Milano, e nel descriverla prende forma uno dei tratti distintivi del romanzo: per il protagonista l’universo femminile ha un potere benefico, palliativo, tratteggiato in aperto conflitto con la narrazione dei ragazzi quasi sempre problematici, infidi, viscidi o pericolosi. Le donne sono le sole entità benigne in grado di aiutare Andrea a tirare avanti, di traghettarlo verso una pace aleatoria e irraggiungibile. Una scappatoia per dimenticare Luisa, che gli ha spezzato il cuore.

Il venticinquenne, fresco di laurea in matematica, non ha nessuna intenzione di sfruttare i propri studi, preferisce che la vita gli accada, che le cose succedano senza che lui provi a opporre resistenza. Così, sempre grazie a Don Enzo, diventa responsabile alla sicurezza in un supermercato aperto ventiquattro ore su ventiquattro, e in seguito trova lavoro come cameriere al Confine, un piccolo locale dal nome emblematico dove conosce Clara, cinque lettere come Luisa, con la quale inizia un’intensa e vivida relazione.

Andrea, però, è un soggetto nevrotico, ha il vizio di contare qualunque cosa e non riesce mai a fare completamente i conti con sé stesso. La sua fuga non gli ha permesso di elaborare il lutto della relazione finita, e attraverso le comparazioni tra Napoli e Milano – anche se rappresentate con i soliti cliché – mostra tutte le proprie insicurezze, traslandole nella diafana discrepanza delle due città. Le descrizioni, infatti, sanno di nostalgia e lotta interiore: Napoli è come Andrea, dolce e amara, irregolare, incoerente eppure capace di un amore incondizionato; Milano invece è precisa, puntuale ma fredda, una città divisiva, in cui non esiste passato e tutto è presente, persino il futuro, e dove la commedia umana che la contraddistingue, troppo attenta all’attimo per indugiare nei ricordi, è meno vitale che a Napoli.

Ma Andrea è partenopeo, e fuggire da questo è impossibile: chi nasce a Napoli muore napoletano – come affermerà verso la fine del romanzo zio Toni, lo zio d’America, milionario e dionisiaco – e presto sarà costretto ad ammetterlo a sé stesso: non si può fuggire dalle emozioni, dalle responsabilità e dalle origini.

Francesco Spiedo, in Stiamo abbastanza bene, ci mostra le fragilità di un’età sottovalutata e spesso banalizzata, attraverso lo sguardo di Andrea ci catapulta in uno spazio narrativo che ricalca la nostra quotidianità. Il protagonista è una sorta di moderno Sisifo, che a un tratto, ormai stanco di resistere e lottare, si lascia andare nell’autocommiserazione e nella casualità esistenziale. Il dolore per la fine di una relazione però sembra esagerato, irresponsabile e stucchevole, ma proprio quando il lettore è allo stremo, pronto a puntare il dito verso la codardia del protagonista, le cose cambiano: la relazione con Clara prima, e il ritorno a Napoli poi, danno ad Andrea la forza di reagire, di prendere coscienza. Il masso incomincia a risalire la china e la macchia di umidità nel monolocale viene finalmente tinteggiata: una pulizia dell’anima prima che domestica.

Andrea comprende così che l’unico modo per uscire dalle incertezze dei nostri giorni è trovare il coraggio di cambiare, perché nella vita, prima o poi, a tutti si rivela la necessità di scegliere, di assumersi il peso delle proprie incombenze e delle proprie aspettative. In fondo, sono le nostre azioni a definire cosa c’è e cosa manca in quel caliginoso “abbastanza”.

 

Francesco Spiedo, Stiamo abbastanza bene, Fandango Libri, 2020, 304 pp., euro 18,50, articolo di Giuseppe Maria Marmo)
  • condividi:

Comments

News

effe

“effe – Periodico di altre narratività” numero dieci

“effe – Periodico di altre narratività” numero dieci

Archivio