Scegliere l’amore non è un pranzo di gala

“Il capitale amoroso” di Jennifer Guerra

di / 8 luglio 2021

Copertina di Il capitale amoroso

La bella che impalma il principe azzurro. Lui renderà lei – che è già ricca dentro e dunque se lo merita, questo amore-premio – ricca fuori; e lei lo aiuterà a riscoprirsi ricco soprattutto dentro.

La sentite la musichetta tananananà di Pretty Woman? Riuscite a visualizzare tananananà Julia Roberts vestita da gran signora che fa shopping nei negozi più costosi, scagliando elegantemente sassolini dalla scarpa contro le commesse snob che l’avevano maltrattata?

Quello che non riuscite a ricordare, scommetto, è il finale del film. No, non Richard Gere arrampicato sulla scala, con La Traviata in sottofondo, che supera le sue fobie, tutte le sue fobie, per andare a dichiarare alla bella Vivian che, sostanzialmente, la «proteggerà dalle paure delle ipocondrie e dalle ingiustizie e dagli inganni del suo tempo e dai fallimenti che per sua natura normalmente attirerà».

Il vero finale è il carrello indietro sul bacio degli innamorati e una voce fuori campo che dice: «Benvenuti a Hollywood! Qual è il vostro sogno? Tutti vengono qui: questa è Hollywood, la città dei sogni. Alcuni si avverano, altri no, ma continuate a sognare! Questa è Hollywood: si deve sognare! Perciò, continuate a sognare!»

Jennifer Guerra, nel suo Il capitale amoroso. Manifesto per un eros politico e rivoluzionario (Bompiani, 2021), ammette che, in effetti, neanche lei se lo ricordava. E così nessuno dei suoi compagni del corso di letteratura a cui era stata fatta questa domanda.

È invece fondamentale tenere presente che gran parte dell’immaginario sull’amore è strutturato su una sua narrazione stereotipata e zuccherosa, e tutto il rapporto marcio, malato e narcisistico che la società sembra avere con l’amore deriva dalla sua exploitation romanzesca, hollywoodiana e pubblicitaria.

La società, infatti, dice Guerra, si comporta come «un amante dal cuore spezzato: cinica e sprezzante nei confronti dell’amore considerato un sentimento stupido, inutile e noioso, una fantasia per adolescenti, un ripiego per chi non sa stare da solo, un lusso per pochi». La narrazione dettata dalla saturazione dell’immaginario è funzionale alla costruzione di quell’individualismo su cui la logica del capitale punta tutto per renderci più soli, più deboli, più in lotta gli uni contro gli altri. Divide et impera, insomma.

D’altronde, che l’amore dopo i vent’anni fosse una cosa da cameriere, lo pensava, o perlomeno così si dice, il più stilosamente cinico dei grandi imprenditori italiani.

Guerra sposta invece i termini del discorso, attingendo all’idea della teorica femminista Bell Hooks: considerare l’amore come azione invece che come sentimento.

Un campo d’azione sul quale si può e si deve lavorare per produrre un antidoto alla società della prestazione, recuperando il concetto di amore per la collettività, l’agape, e orientandosi sull’idea di «comunità amorevole» di cui parlava Martin Luther King, basata sull’accoglienza delle singolarità e sull’abolizione di quelle che Hooks chiama le «false frontiere», cioè l’interessarsi soltanto al destino e alla felicità di chi è simile a noi.

Un compito per niente facile, immersi come siamo in questo brodo di attivismo performativo e ultracompetitività.

In questo senso l’amore – non solo quello che pensiamo di meritarci, che ci voglia tutte spettinate, ma soprattutto quello che dovremmo imparare a dare senza aspettare una contropartita, utilitaristicamente intesa – rischia di metterci in discussione molto più seriamente di quanto vorremmo.

Il cinismo nei confronti dell’amore nasconde il cinismo nei confronti della società, il tradimento della politica si riverbera nella disillusione amorosa che diventa una vera e propria forma di propaganda dei «profeti di sventura», come li chiama sempre Bell Hooks: i dettami neoliberisti dell’autosufficienza, dell’autoregolazione del mercato, del perseguimento dell’interesse del singolo, e il mito americano del self made man, sono esattamente ciò che serve al sistema per tenere attivo il meccanismo di competizione.

Trionfa l’amore come pragma (secondo la distinzione del sociologo John Alan Lee, alla cui opera, Colours of Love: An Exploration of the Ways of Loving, Guerra ricorre intelligentemente come criterio di classificazione), cioè come convenienza della relazione. Quel tentativo di massimizzazione del profitto e ammortizzazione dei rischi che il filosofo Alain Badiou definisce «amore securitario».

Mentre invece l’amore che Guerra ci invita a prendere in considerazione come allenamento alla costruzione di un mondo migliore per tutti è un concetto che ha molto a che vedere con quello di cura, un valore universale e fondante, di cui tutti dovremmo ripartirci la fatica (storicamente addossata alle sole donne).

Un anelito condiviso con un altro interessante manifesto, scritto dal collettivo inglese Care Collective, recentemente tradotto da Marie Moïse e Gaia Benzi e pubblicato da Alegre con una postfazione della stessa Jennifer Guerra, Manifesto della cura. Per una politica dell’interdipendenza: «Per risolvere il problema della crisi della cura, la soluzione è solo una: cambiare. Cambiare il sistema, cambiare i paradigmi del lavoro, del tempo, della condivisione dei ruoli e dei compiti. E possiamo partire proprio da ciò che suggerisce Martin Luther King: la libertà individuale porta a una liberazione collettiva, tenendo a mente che non c’è liberazione se il lavoro di cura – necessario agli esseri umani, non al sistema – non diventa carico della comunità».

Scegliere l’amore non è certo un pranzo di gala.

L’ultimo capitolo di Guerra è dedicato ad Aleksandra Kollontaj – figura chiave della Russia rivoluzionaria, poi marginalizzata per le critiche mosse alla mentalità ancora patriarcale della Russia bolscevica e oggi quasi dimenticata – e alla sua definizione di amore nell’accezione più alta del termine, a cui Guerra guarda come modello. Eros alato, qualcosa che «porta a riconoscere i diritti e l’integrità della persona altrui, a favorire un rapporto di sostegno reciproco, di simpatia, partecipazione e comprensione per i bisogni dell’altro».

Sebbene ogni tanto, durante la lettura, venga da pensare – sulla scorta dello psicologo russo Aron Zalkind, critico proprio delle teorie della Kollontaj – che con il culto dell’Eros alato «non si possano costruire aeroplani», il punto è che in questo Manifesto non si parla di meccanica dei velivoli, ma di prove di volo. Come si diceva? Siate realisti, chiedete l’impossibile.

 

(Jennifer Guerra, Il capitale amoroso. Manifesto per un eros politico e rivoluzionario, Bompiani, 2021, pp. 120, euro 15. Articolo di Giulia Marziali)
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