#ItaliaSiCura, ma si è sgretolata

Riflessioni a partire dal “Manifesto della cura” di The Care Collective

di / 15 luglio 2021

Copertina del Manifesto della cura

Al terzo anno delle medie gli insegnanti ci fecero partecipare a un progetto sulla scuola di Barbiana, alla fine del quale era prevista una visita alla minuscola frazione di Vicchio. In cima alla salita c’erano solo una chiesa e un campanile, sembrava assurdo che l’insieme di così poche architetture potesse addirittura avere un nome proprio. Tre cose mi colpirono molto quando arrivammo: l’isolamento del luogo, la piscina che Don Milani aveva costruito per insegnare a nuotare a bambini cresciuti tra le montagne e la scritta «I CARE» sulla porta dell’aula. Michele Gesualdi, che della scuola fu allievo, ci accolse entusiasta e ci spiegò che ogni bambino di dieci anni che segua quel monito è un alunno di Don Milani. «Capite?» ci diceva indicando la scritta, «significa “mi sta a cuore”, “ho caro qualcosa”, “prendermene cura”. Lo si usa quando ti importa di qualcosa come a lui importava dei suoi alunni figli di contadini. Ma per lui era anche e soprattutto quell’energia trascinante che ci doveva distinguere nella vita, l’interesse per la causa e per gli altri». Don Milani utilizzava quella parola inglese intraducibile, che richiamava un affetto descrivibile italiano solo attraverso la somma semantica di più parole, come se per restituirne l’intensità si potesse solo lavorare per aggiunte.

La parola care è tornata al centro del dibattito in Gran Bretagna con l’avvento del Covid-19: in quante delle declinazioni del termine ha fallito il governo di Boris Johnson? È quello che si propone di capire, in termini costruttivi, il Manifesto della cura. Per una politica dell’interdipendenza firmato da The Care Collective e pubblicato in Italia da Alegre. Sono tre le accezioni principali della parola: caring for che si riferisce agli aspetti più concreti della cura, caring about che descrive l’investimento emotivo e il nostro attaccamento agli altri e infine caring whit che si riferisce al nostro «piano politico» per trasformare il mondo.

Partendo proprio dal caring for, e quindi osservando il modo in cui il governo inglese si è occupato dei suoi cittadini, il Manifesto annuncia un primo paradosso: chi più dipende dal bisogno della cura altrui sono i ricchi, che delegano ad altri, in quasi tutti gli ambiti, la cura della loro vita e dei loro affetti, dalla gestione domestica alla crescita dei figli. In un mondo in cui indipendenza e autonomia sono diventati pilastri su cui si valuta lo status del soggetto, è chiaro perché si ambisca a essere indipendenti dagli aspetti della cura. Questo avviene proprio perché il concetto di cura è per sua natura relazionale, e alimenta inoltre atteggiamenti, quali la tenerezza e l’attenzione, da sempre accostati alla sfera femminile, in contrasto con i dettami comportamentali della virilità. Per questo motivo la cura è stata patologizzata, assegnata a terzi o a strutture specializzate che gestiscono i relativi ambiti della vita in parallelo rispetto allo spazio pubblico in cui le nostre vite si svolgono.

Il caring about richiama allora una “debolezza” che si manifesta in ognuno di noi in forme e modi variabili, ma che riusciamo a gestire solo entro appositi spazi in cui non mostriamo al mondo intero il bisogno dell’altro. La richiesta di aiuto è ritenuta “femminile” perché presunto segno di scarsa forza d’animo, ma lo è anche nella misura in cui sono storicamente le donne a rispondere a questa necessità: sono soprattutto loro, infatti, a prestarsi là dove c’è bisogno di sostegno. Ma come sottolineano gli autori la parola care esprime la nostra parte tenera, una sfera che, come il libro mette in luce, è fonte di fragilità sia quando si reclama un aiuto sia quando l’aiuto viene dato. Non è un caso che il femminismo della seconda ondata denunciasse la fatica fisica e psicologica che le casalinghe provavano, estenuate dal lavoro di cura. Tutto ciò racconta del grande vuoto culturale che abbiamo nei confronti della cura personale e altrui. Se da una parte è demonizzata come un difetto, dall’altra la cura è stata relegata a soggetti considerati inferiori e per questo considerati adatti a gestire le “degradazioni” della nostra vita: le donne, i neri e la servitù.

Da qui il chiaro bisogno di costruire un’immagine sana e genuina della cura attraverso una risignificazione culturale: un caring whit che racconti come la politica possa inserirsi in questo spazio. Non è difficile cogliere come lo spirito culturale dell’indipendenza sia stato assunto quale indirizzo politico dai governi, nel scegliere le modalità amministrative con cui curare. Delegata al privato e taciuta per vergogna, la cura si svolge quasi sempre entro un rapporto uno a uno: il bisogno di cura nasce dalla consapevolezza che da soli non resistiamo, ma la soluzione rimane confinata allo spazio del singolo, che da solo chiederà aiuto e da solo potrà uscirne.

Vivere questa fase storica segnata dalla pandemia è stato come assistere a un film dai colori saturati tratto da un romanzo distopico: un primario del più celebre ospedale della capitale ha trovato la ricetta dell’elisir di lunga vita e perché la pozione funzioni deve tagliarsi le braccia, ma tutto il film si incentra sulla lotta fisica per tentare di berlo. Un film sulla solitudine, sulla contraddittorietà del valore dell’autonomia, un film che suscita rigetto, non ti è bastata la lezione? Perché non chiedi aiuto? Abbiamo vissuto la metafora fisica di un’atomizzazione già presente a livello emotivo che è diventata palese quando il distanziamento ha aggravato la solitudine che fin da prima caratterizzava le nostre vite. Al contrario, in filigrana a tutto il libro viene ribadito il principio annunciato nel titolo: dobbiamo percepirci in un sistema organico in cui si abbracci come valore l’interdipendenza reciproca. Per questo motivo curare è azione politica: valorizzare gli spazi pubblici, le piazze, le biblioteche, le società di mutuo soccorso.

Jennifer Guerra ha curato la postfazione del Manifesto offrendo una lettura italiana della parola “cura”. Come nota giustamente, il decreto legge n. 18 del 17 marzo 2020, quello del primo lockdown pandemico, è stato chiamato #CuraItalia, un nome che doveva esprimere l’intenzione di rafforzare il servizio sanitario e aiutare famiglie, lavoratori e imprese. Allora la parola cura sembrava la risposta più ovvia a un’emergenza del calibro di una crisi pandemica globale, un farmaco politico unico e necessario per rispondere a esigenze collettive. I decreti successivi hanno però sostituito “cura” con “ristori”, e dai suoi beneficiari sono state eliminate le famiglie. Nessuna cura, ma una benefica compensazione a fronte della fatica sostenuta, qualcosa che assomiglia più a un premio fedeltà che a un aiuto concreto e sistemico.

Il lavoro del Care Collective rischia di limitarsi a un’orazione ricca di buoni intenti che però non scende in un’analisi profonda dei sistemi di cura imperanti, e che si rivelano semplici palliativi. Né offre risposte concrete su come potrebbe funzionare una società che si fa carico della cura e si realizza nella sua interdipendenza. Sicuramente, però, aiuta a riflettere sulla società in cui viviamo. Per esempio a scoprire che no, l’Italia non si è curata, e non è nemmeno sicura nel modo a cui vorrebbe alludere l’hashtag #ItaliaSiCura promosso dall’attuale governo. Forse, come diceva Susan Sontag, la malattia è una metafora, e noi possiamo coglierla nella scelta delle parole con cui è stata raccontata. Nel nostro caso, un paese infetto che cura i sintomi e non aggredisce il fattore patogeno.

 

(The Care Collective, Manifesto della cura. Per una politica dell’interdipendenza, trad. it. Marie Moïse e Gaia Benzi, prefazione di Sara R. Farris, postfazione di Jennifer Guerra, Alegre, 2021, pp. 128, euro 12. Articolo di Anita Fallani)

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