Vociferazione nell’antro della strega

“Streghe fraterne” di Antoine Volodine

di / 20 settembre 2021

Copertina di Streghe fraterne di Volodine

Nel raccontare la parabola narrativa dei suoi personaggi più celebri, quali Tomáŝ e Tereza, Franz e Sabina, Milan Kundera nel suo capolavoro del 1984, L’insostenibile leggerezza dell’essere, scriveva queste parole: «I personaggi non nascono da un corpo materno come gli esseri umani, bensì da una situazione, da una frase, da una metafora, contenente come in un guscio una possibilità umana fondamentale che l’autore pensa nessuno abbia mai scoperto o sulla quale ritiene nessuno abbia mai detto qualcosa di essenziale». Questa citazione balza subito alla mente approcciandosi per la prima volta alle pagine inziali di Streghe fraterne, l’ultimo romanzo pubblicato dallo scrittore francese Antoine Volodine per 66thand2nd, nel quale l’autore continua e prosegue la sua personalissima poetica definita post-esotica.

Nella prima delle tre parti in cui è suddiviso il libro, intitolata “Teatro o Morte”, la metafora attraverso la quale si dipana la storia è quella di un mondo apocalittico, grigio, privo di qualsiasi coordinata geografica ma verosimilmente identificabile negli ex territori dell’Unione Sovietica appartenenti alla regione del Caucaso. I modelli economici del passato sono crollati, lasciando dietro di sé nient’altro che devastazione e popoli da «fine-mondo». È da quest’atmosfera che, ripensando alle parole di Milan Kundera, emerge la figura di Éliane Schubert, una girovaga dal passato itinerante entrata in seguito a far parte della compagnia teatrale della Gran Nidiante, impegnata «attraverso villaggi e contrade recitando farse medievali e agit-prop». Istigata da un sadico aguzzino che la tiene prigioniera in un luogo non ben precisato, Éliane sarà costretta a ripercorrere interamente la sua storia, dalle origini passate ad apprendere oscuri slogan (nonostante sia difficile parlare di origini dato che il tempo, come qualsiasi altra coordinata esistente, è nel libro solo un’indicazione vaga e fittizia) al momento della sua morte in uno sperduto villaggio del Khorogon. Già dall’inizio quindi la voce di Éliane si presenta come la custode di alcune formule antiche, definite con il termine evocativo di cantopera, insegnatele dalla madre e dalla nonna quand’ancora era una bambina piccolissima e il cui significato rimane a lei stessa incerto.

Nella seconda parte, “Le vociferazioni”, la sensazione che abbiamo è quella di essere trascinati all’interno di un cerimoniale arcaico, una litania ossessiva che condivide assieme alle componenti magiche una ritualità che si evince non solo dalle parole utilizzate, ma dalla stessa struttura del testo. E in effetti, leggendo queste singole frasi brevi, slegate da qualsiasi significato logico («1. Procedi fino al sedicesimo singulto! 2. Procedi con o senza mani rugose! 3. Che importano le rughe sulle spalle!») ciò che più colpisce è il ritmo martellante, ripetuto, quasi estatico, di questi frantumi di suono che assomigliano a quella «poltiglia di sillabe balbe rimasticate in eterno da mascelle senili» di bufaliniana memoria. A quanto pare queste imprecazioni sarebbero state ispirate ad Antoine Volodine dalle visioni di una sciamana siberiano-coreana conosciuta fra le sponde di Macao, tale Maria Soudaïeva. Ma dicevamo della struttura, dell’impianto che queste vociferazioni assumono disponendosi sulla carta bianca della pagina: 343 versi sciolti (7x7x7) su 49 capitoli (7×7) dove 49 sono anche i giorni che nel Libro tibetano dei morti separano l’uomo dal momento della sua morte a quello della rinascita. Al di là dell’evidente simbologia escatologica che attraversa questa sezione, è interessante cercare di interrogarsi sulle modalità in cui l’autore ha cercato di amalgamare le diverse parti che compongono il libro. A questo proposito, ci viene incontro la breve didascalia situata nel frontespizio, la quale al di sotto del titolo, Streghe fraterne, vede la presenza della sola parola intrarcane.

Nell’immaginario dello scrittore francese questo termine suggerisce uno spazio chiuso, esoterico, del quale può far parte solo una cerchia ristretta. Qui, due testi di natura diversa (come sono quelli che ci troviamo di fronte) riescono a dialogare tra loro in un continuo scambio di informazioni, disponendosi quindi come attraverso una struttura circolare, capace di passare indifferentemente da una sezione all’altra. In questo senso, Volodine lascia a discrezione del lettore la possibilità di decidere il modo in cui legare e combinare tra loro i diversi contenuti, senza ispirare a questo nessuna indicazione preferenziale.

L’ultima parte, dal titolo “Dura nox sed nox”, presenta, nell’arco di un tempo indefinito che dura l’attimo di una notte eterna, un’unica frase che si scioglie per più di cento pagine, dando voce a una misteriosa coscienza, uno spirito malvagio che passando da un corpo all’altro – in un’eterna reincarnazione che ricorda in maniera parodistica il ciclo delle vite del samsara – compie ogni genere di nefandezza senza alcuno scrupolo di sorta.

Quella che Volodine opera è in sintesi la dissoluzione del mondo contemporaneo, delineata ricreando un scenario in cui tutto è sepolto sotto le macerie. Il mondo che ci si para davanti agli occhi è un mondo distrutto, dalle tinte apocalittiche, dove le strutture sociali, politiche, economiche e urbanistiche hanno lasciato il posto a un panorama asfittico, privo di una qualsiasi forma d’organizzazione. In questo contesto primitivo, ciò che rimane non è altro che la parola, con tutto il suo potere evocativo. Un linguaggio che però non segue delle regole prestabilite né una sua logica, caratterizzandosi invece per le proprie qualità arcane il cui manifestarsi non può che avvenire attraverso la sua componente magica. Ma qual è appunto e come si esplica questa parola, questo linguaggio magico? Attraverso la ritualità, la ripetizione ciclica e quindi la formulazione mnemonica da non dimenticare e il cui scopo principale consiste nell’evocare, nel dar vita e forma alla cosa ripetuta.

Per concludere, tutti questi elementi come la cantopera portata in eredità e trasmessa da Éliane, le vociferazioni, le vite cicliche di Hadeff Kakaìne (uno dei tanti nomi assunti dall’essere protagonista delle ultime pagine), contribuiscono nell’insieme a creare quel mondo che Volodine ha tratteggiato più e più volte non solo in Streghe fraterne, ma nel corso dell’intera sua produzione letteraria, delineando una poetica ben precisa. Esattamente come accadeva per la civiltà egizia, la sola enunciazione della parola ha in queste pagine il potere di rendere immediatamente reale e tangibile il concetto espresso, senza che possa esistere un effettivo confine tra parola e magia. Lo stesso geroglifico, per il solo fatto di dispiegarsi sul papiro, era capace di donare concretezza all’idea astratta che si voleva esprimere, di modo che qualsiasi processo di nominazione equivalesse a un processo di creazione, ciò che l’autore francese non dimentica mai, neanche per un istante, di ricordarci attraverso tutto il suo libro.

 

(Antoine Volodine, Streghe fraterne, trad. di Anna D’Elia, 66thand2nd, 2021,  272 pp., euro 17, articolo di Davide Tamburrini)
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