Di esclusioni, abbandoni e tradimenti. Soprattutto tradimenti

“Il cinema francese attraverso i film”, a cura di Giorgio Tinazzi

di / 9 febbraio 2022

Il cinema francese attraverso i film di Tinazzi

Tutto ha inizio da una banconota falsa, messa in circolazione quasi per scherzo, e finisce con un massacro in una casa di campagna: il tempo che separa i due eventi è la dimostrazione che il mondo è un susseguirsi irreparabile di azioni, senza giustizia e senza speranza. È il 1983 e Robert Bresson, esponente del cinema minimalista, crea L’argent, il film tratto dal racconto di Lev Tolstoj Denaro falso, di cui il regista francese, però, conserva solo i tratti essenziali.

Per Bresson, infatti, togliere, spogliare le cose e restituirle a uno spettatore indifeso non è un esercizio di stile, ma l’essenza stessa del cinema e della vita. A parlarne approfonditamente è Luciano De Giusti, in un saggio dedicato proprio a L’argent, nel terzultimo capitolo di una raccolta di qualche anno fa, Il cinema francese attraverso i film curata da Giorgio Tinazzi (Carocci, 2011).

Il lavoro di Bresson ci costringe a fare uno sforzo cognitivo, ad abbandonare il linguaggio rassicurante e ad accettare l’inevitabile: i presagi del riscatto che aspettiamo e che una buona parte del cinema americano ci ha abituati a cogliere, anche laddove non sembrava possibile, non esistono nel suo mondo. Se non fossimo davanti a uno schermo, potremmo pensare di trovarci in una storia scritta da Leo Perutz (che fu, in realtà, a lungo corteggiato da Hollywood) o da Franz Kafka: ma i dettagli scomposti sui quali siamo costretti a posare lo sguardo impediscono di sovrapporre le parole allo stile squisitamente visivo di Bresson.

Il denaro è l’origine del male, come ha insegnato timidamente un altro regista francese, più compreso e amato dal grande pubblico rispetto al suo connazionale: L’histoire d’Adèle H. (1975) di François Truffaut (a dispetto del titolo italiano Adele H. – Una storia d’amore) è anche un film sul denaro, sul suo potere e le sue ombre, come ci svela una delle scene più amare, in cui la protagonista, pallida e sconfitta, interpretata da Isabelle Adjani, offre dei soldi all’uomo perduto pur di riaverlo.

Tutta la filmografia di Truffaut è infatti costellata di esclusi e dimenticati, di abbandoni, di illusioni. E di tradimenti. Come quello che commettiamo noi stessi nei suoi confronti (e nei riguardi di tutto il cinema francese d’autore) non ricordando, ad esempio, il susseguirsi degli eventi raccontati in I quattrocento colpi, ma solo il doloroso fermo immagine finale del giovanissimo Antoine Doinel/Jean-Pierre Léaud che, dopo una corsa a perdifiato su una spiaggia in bianco e nero, guarda dritto in camera, tradendo anche lui, per un attimo infinito, l’illusione del cinema. E proprio quel tradimento, sfacciato e imperdonabile, avrebbe segnato l’inizio di un nuovo modo di fare e di guardare i film e, soprattutto, di osservare il mondo.

In questo volume, però, non c’è traccia né della storia lacerante di Adèle Hugo, né dell’indimenticato Antoine: appare invece un altro film di Truffaut, che segnò l’allontanamento definitivo del regista parigino da quel canone che lui stesso aveva contribuito a creare, come spiega Antonio Nepoti. Effetto notte (La nuit américaine, 1973) è la storia di un altro tradimento, forse il più crudele: l’inganno del cinema (o meglio, di un certo tipo di cinema) con le sue notti che son solo giorni modificati attraverso un filtro.

Di esclusi e traditi è piena la tradizione d’oltralpe, come capiamo anche da questa raccolta, da questi dodici film che apparentemente seguono percorsi e identità diverse. Non sono I dimenticati di Preston Hughes, piuttosto una versione speculare ed europea dei Misfits raccontati da Arthur Miller: «Gli inadatti», come li chiama Leonardo Sciascia nel testo I miti del cinema, (in Questo non è un racconto, Adelphi, 2021), sollevando perplessità sulla scelta italiana di tradurre l’opera dello scrittore americano (trasportata poi sul grande schermo da John Huston nel 1960) con il titolo Gli spostati.

È un’estraneità, quella che ritroviamo anche nei personaggi di Dulac, Clair, Renoir, Carné, Clouzot, Tati, Resnais, Godard, Truffaut, Bresson, Rohmer e Cantet, che invade ogni cosa: persino gli oggetti e i luoghi mostrano il loro distacco dagli uomini. Le cose, come spiega Alberto Scandola a proposito di Vite vendute diretto da Clouzot (Le salaire de la peur, 1953), sono dotate di vita propria, hanno scopi e identità: «Forse dimenticheremo l’obiettivo del viaggio di queste vite vendute. E invece, chissà, ricorderemo il cigolio di una ruota, una gamba sporca di petrolio e una mano aperta, sporca di sangue, inerte: quella che abita l’ultima inquadratura».

O come accade nel film Sotto i tetti di Parigi (Sous les toits de Paris, 1930) di René Clair, in cui una Parigi archetipica osserva indifferente le vicissitudini dei protagonisti, ricordando a tutti noi che la vita dei luoghi esiste anche senza la felicità dei suoi abitanti. Non è un caso che proprio a Clair, alla sua morte e al suo film su Parigi, Sciascia dedichi due saggi del già citato volume sulla settima arte. Spettatore dapprima onnivoro e appassionato, lo scrittore siciliano si allontanerà dal cinema in età adulta, per rifugiarsi solo nel conforto della memoria, come scrive lui stesso, e ricordando pochi, grandi film tra cui proprio il capolavoro di Clair.

Sono “inadatte” anche molte delle donne raccontate da Claude Chabrol, grande assente nel libro Il cinema francese attraverso i film, forse perché troppo ingombrante per essere contenuto in una selezione che, per quanto precisa, nasce, per sua stessa natura, parziale. Come spiega nella prefazione il curatore Giorgio Tinazzi, la scelta è ricaduta, inevitabilmente, su quei registi ritenuti indicativi di epoche e stagioni precise. E se il dibattito sull’esistenza o meno di un’identità francese (culturale, sociale e perché no, anche politica) è ancora aperto e insoluto, viene da chiedersi che senso abbia analizzare oggi film che abbracciano ottant’anni (dal 1928 al 2008), ossia dall’avvento del sonoro, fino al lavoro quasi sociologico di La classe (Entre les murs, 2008), in cui lo sguardo del regista Laurent Cantet si posa sul microcosmo scolastico.

E se oggi molti di questi classici della cinematografia francese pagano il prezzo di un certo fascino intellettuale che li condanna a riduzioni stilistiche e visive, a diventare semplici immagini feticcio esibite sui social, occorre ricordare quanto, invece, siano lontani dalla rassicurante perfezione ossessivamente ricercata nei nostri giorni.

 

(Giorgio Tinazzi, Il cinema francese attraverso i film, Carocci, 2011, 280 pp., euro 22, articolo di Elisa Carrara)

 

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