La musica ha perso

A proposito di Spotify, Neil Young e industria culturale

di / 15 febbraio 2022

Circa due settimane fa Neil Young comunica il suo ultimatum a Spotify: o me, o Joe Rogan. L’artista canadese chiede di rimuovere il suo intero catalogo nel caso Spotify continui a fare da piattaforma al podcaster Joe Rogan, reo di avere avuto come ospiti alcune personalità vaccino-scettiche o anti-vax, e quindi di aver contribuito a disinformazione pericolosa per la salute delle persone. Spotify, con cui Rogan ha da poco firmato un contratto di 100 milioni di dollari per l’esclusiva sui suoi contenuti, rimuove Neil Young.

La protesta di Neil Young innesca un limitato effetto a catena. Anche Joni Mitchell in solidarietà, abbandona Spotify. Apparentemente, il 19% degli utenti Spotify dichiara l’intenzione di cancellare l’abbonamento al servizio (per andare dove, verrebbe da chiedersi). Le piattaforme rivali non perdono tempo: Amazon, per esempio, posiziona Young e Mitchell sulla homepage della sua funzione “Rediscover“. Abbandonare Spotify senza ripercussioni è facile, scrive il Washington Post, e spiega anche come farlo. Per coincidenza, il Washington Post è proprietà di Jeff Bezos, che è anche proprietario di Amazon Music.

Mi interessa poco stare a dibattere qui su chi ha ragione e chi no, elaborare sul personaggio di Joe Rogan, pontificare sulla libertà di parola e decostruire lo scetticismo che mina la scienza. Quello che per me è importante è che la musica, in questa controversia, ha perso. E lo ha fatto contro un avversario formidabile: il podcast.

Il ‘formato’ podcast, in cui la gente discute problemi, ripercorre storie, scherza, o semplicemente ciarla, ammette come elemento costitutivo la disinformazione. Immaginatevi di stare in un bar: sappiamo come funziona, no? La forma del podcast è esattamente quella di un bar su una piattaforma da cui vi possono sentire tutti. Come Rogan ha detto, il podcast lo fondò nel 2009 con un amico per “sparare cazzate di fronte al PC”. Tredici anni più tardi, The Joe Rogan Experience è il podcast più seguito non solo su Spotify, ma al mondo: annovera circa 1700 episodi, per un totale di un miliardo e mezzo di visualizzazioni (prima che da YouTube si trasferisse su Spotify). Forse è per questo che Spotify se lo coccola. Se Rogan fosse stato un banalissimo aspirante influencer, Spotify l’avrebbe probabilmente depiattaformato con un clic. Spotify, così come tutte le altre big tech che popolano i nostri giorni e immaginari, ha una sola etica: quella del profitto. Neil Young, con tutto il rispetto, non porta loro gli stessi soldi.

La realtà è un triste problema di contenuto: nell’economia dell’attenzione, podcast e musica si trovano in conflitto. E il podcast sta rubando il tempo della musica: anche se dall’inizio della pandemia ascoltiamo più contenuti audio, il consumo di podcast è cresciuto in maniera esponenziale, molto più rispetto a quello musicale. È estremamente probabile che quando il nostro consumo audio diminuirà con il normalizzarsi della situazione, a farne le spese sarà la musica. In altre parole, il podcast continuerà a mangiarsi fette di territorio musicale, e nella competizione con formati audio non musicali, la musica è destinata a cadere in secondo piano.

Perché? Forse che ascoltare delle persone ‘sparare cazzate’ è diventato più interessante che ascoltare musica? Non è poi passato così tanto tempo da quando Thom Yorke, leader dei Radiohead, chiamò Spotify “l’ultima disperata scorreggia di un cadavere” (riferendosi all’industria musicale e al tentativo delle major di mantenere potere e controllo a tutti i costi). Yorke predicava un’interazione diretta tra musicista e ascoltatore, e per questo dette la possibilità ai fan di scaricare In Rainbows a donazione libera direttamente dal sito della band. L’esperimento fu un successo. Yorke, però, ometteva che per arrivare nella posizione di pubblicare un album in self-release ne aveva già pubblicati sei con una major, la EMI, la quale gli aveva garantito visibilità planetaria (provate domani, da artisti emergenti, a pubblicare il vostro album nello stesso modo – attenzione, segue spoiler). Ma soprattutto Yorke si sbagliava perché il cadavere non era l’industria musicale e le sue strutture di disuguaglianza, bensì la musica stessa.

La rivoluzione dello streaming ha portato alcuni effetti di democratizzazione nella produzione musicale e condotto a una densa cultura partecipatoria. Secondo il libro Music by Numbers, redatto da due accademici inglesi, Richard Osborne e Dave Laing, nel 2000 vennero pubblicate circa 300.000 canzoni. Nel 2010 questo numero era salito a 900.000 (in media 2.465 al giorno). Nel 2020, sono state pubblicate 21,9 milioni di canzoni (60.000 al giorno). Un’esplosione di creatività, nel segno del ‘chiunque può farlo’ e in faccia all’elitismo del sistema. Mai come ora musicisti senza etichetta possono svilupparsi nel mercato senza bisogno di strutture intermedie, ma andando direttamente dal produttore al consumatore. Il 2020 ha infatti segnato una crescita senza precedenti per gli artists direct, musicisti che producono e distribuiscono musica da soli.

Tuttavia, gli artists direct molto spesso rimangono nel sottosuolo del sistema. Nel 2018, per esempio, 3,7 milioni di artists direct si sono spartiti circa 643 milioni di dollari in proventi, per un totale annuo di 173 dollari ciascuno (150 euro). La ristretta minoranza (il famoso 1%), formata da artisti a contratto con le major, continua a essere saldamente all’apice della piramide e a spartirsi circa il 70% dei proventi di tutta l’industria musicale su scala globale. Lo streaming non è poi così rivoluzionario: secondo un autorevole studio, nel 2020 i proventi medi per i cinque millioni di artists direct (nel frattempo sono cresciuti), sono stati di circa 240 dollari a artista/gruppo (210 euro). Solo lo 0,05% di questi artisti vive con i guadagni della musica: “molti di quei sogni”, conclude il rapporto, “rimarranno irrealizzati”.

Più musica prodotta significa anche più musica inascoltata. Forgotify, parola-macedonia composta da ‘forgotten’ (dimenticato) e Spotify, fu un’app lanciata nel 2014 per dare dignità a tutte le tracce che su Spotify non avevano mai ricevuto un singolo ascolto. Secondo il team di sviluppo dell’app, a quel tempo le tracce inascoltate erano all’incirca 4 milioni, e sui 20 milioni disponibili costituivano il 20% del catalogo. Se le proporzioni sono rimaste le stesse, significa che sugli 82 milioni di tracce presenti oggi su Spotify, circa 16 milioni non hanno ricevuto nessuna attenzione da parte di nessuno. Purtroppo, non lo sapremo mai con certezza: la nobile idea di Forgotify non funzionò, e Forgotify, ironia della sorte, fu dimenticata anch’essa.

Chi trae beneficio dalla sovrapproduzione, inoltre, è in primo luogo la piattaforma ospitante. Infatti il CEO di Spotify, Daniel Ek, non ha nessun problema a dichiarare che per i musicisti pubblicare un album ogni 3-4 anni non è ormai abbastanza. L’artista ha bisogno di produrre con continuità. Per Spotify, più uova fa la gallina, meglio è. La sovrapproduzione e la precarietà musicale che ne deriva non sono cose che riguardano né tantomeno nuocciono alla piattaforma. Il tuo tempo è limitato, ma lo spazio nel loro catalogo no. L’importante è essere ispirati e ispirare.

L’illusione delle opportunità ha anche portato alla managerializzazione del musicista. In tutte le conferenze dell’industria musicale il mantra è uno solo: puoi scrivere la migliore musica al mondo, ma se non sai come diffonderla, se non sai come adoperare gli strumenti digitali, se non hai una presenza sui social media, se sei negato con il networkingin sostanza, se non sai come venderti – non potrai mai viverci. Questo significa che la qualità della musica è secondaria alla sua pubblicità e alle capacità imprenditoriali del musicista. La scala dei valori viene alterata e la promozione del contenuto diventa più importante non solo del contenuto, ma della creazione stessa.

Non c’è tempo da perdere, e quindi bisogna tagliare il superfluo: il gruppo, per esempio. Non è un caso che i gruppi stiano scomparendo, rimpiazzati da artisti singoli che compongono musica nella loro cameretta. Essere in un gruppo comporta continua negoziazione: organizzare le prove, suonare una nota anziché un’altra, arrangiare in un modo oppure in un altro, provare diverse strutture, litigare, fare pace, e così via. Alcuni direbbero che il gruppo è una scuola di vita, un’esperienza formativa non solo per un musicista ma per una persona in generale, tramite cui si impara ad ascoltare gli altri e a scoprire sé stessi. Questa esperienza però, richiede tempo e energia. La tecnologia digitale, così come favorisce l’invasione dello spazio privato ai danni di quello pubblico e demolisce la nostra capacità di comunicare, facilita anche l’ascesa di artisti che sostituiscono le dinamiche di gruppo con un lavoro creativo atomizzato.

La logica neoliberista non vuole collettività, bensì atomizzazione, e non solo nei produttori, ma anche nei consumatori, in modo da poter poi fornire un falso senso di sicurezza. Da qui il boom di playlist ‘umorali’ e ‘rilassanti’ sulle piattaforme streaming. Gli algoritmi del mood e del chill sono importanti per consolare il lavoratore afflitto, per condurlo a fine giornata e farlo addormentare affinché possa riprendere la sua routine produttiva il giorno dopo. La musica, in questo senso sostituisce (o meglio, affianca) antidepressivi e tranquillanti. Questa musica la sentiamo dovunque, dal supermercato alla caffetteria, dal centro commerciale al ristorante. È memetica in natura, creata quasi da uno stampo atemporale. È una musica la cui mediana nasce dalle nostre ansie: una sorta di dance triste che però non è proprio dance e non è proprio triste. Breve, sui 3 minuti, dall’intro quasi nullo, con il ritornello nei primi 40 secondi e una classica struttura ABABCB (strofa-ritornello-strofa-ritornello-bridge-ritornello). Se include delle parole, queste raccontano una storia d’amore finita male che però porta al potenziamento individuale, in linea con la logica tardo-capitalista di resilienza.

L’intensificazione di contenuti memetici oggi non vale solo per il pop o per generi commerciali. Vale anche (e soprattutto) per i generi alternativi. “L’indie da discarica” degli ultimi 20 anni, per esempio, presuppone una clonazione in serie senza interventi ritmici o sonori. Anche qui possiamo già sentire la canzone tipo, una specie di incrocio tra Kings of Leon e Mumford & Sons: batteria con cassa in quarti, chitarrine vagamente taglienti, riffetto veloce, voce maschia e ritornello con cori smarmellati. Anche qui si parla di amori poco fortunati ma c’è un pizzico di cinismo in più. Il risultato è che si può ascoltare una compilation di canzoni di diversi gruppi ingannandosi che sia uno solo.

Tuttavia, come in un cameo digitale, gli artisti pubblicano un album, o anche solo un EP, poi scompaiono, non avendo avuto tempo per svilupparsi fuori dalla macchina. Essendosi plasmati su di essa e avendone anticipato le esigenze, ne vengono inghiottiti. E quindi, se la mercificazione un tempo avveniva nella fase di impacchettamento della musica come prodotto per il pubblico, ora avviene alla fonte, quando il musicista accende il computer per comporre la sua prossima hit. Verrà accettata dall’algoritmo? Diventerà un meme? Quali 15 secondi prenderanno? Nei numerosi manuali di istruzioni su come creare la perfetta canzone virale su TikTok si parla proprio di questo: ci vuole un certo bpm, un certo livello energetico, e una certa tempistica nell’azzeccare il trend giusto. Alla fine, memetico è il contenuto e memetico è l’uso.

Non romantizziamo: non c’è mai stato un tempo in cui la musica non sia stata mercificata dall’industria culturale e venduta come bene di consumo. Già negli anni ’30 e ’40 del secolo scorso, Adorno muoveva le critiche più veementi, e sinora più perspicaci, all’industria culturale. La produzione di massa di artefatti musicali tutti uguali, diceva Adorno, mira all’abbrutimento dell’ascoltatore e alla sua regressione. Il circolo è vizioso: la passività e l’acriticità portano al consumo seriale di artefatti musicali tutti uguali. Alla fine, concludeva il filosofo tedesco, la canzone “sente per l’ascoltatore”.

Adorno però non aveva previsto che di lì a poco la musica leggera, soprattutto il rock, si sarebbe interrogata su sé stessa, sul proprio ruolo nella società e sulla propria serietà, sperimentando in multiple direzioni, raggiungendo a pieno diritto di essere considerata musica colta, e dando voce a disagio e rabbia generazionali. Certo, in tutto questo la musica era sempre anche merce, prodotta dall’industria musicale e indicizzata in base ai soldi che poteva fare. Ma questo non ne escludeva il valore sociale. La differenza era nella pervasività del processo di mercificazione, nello stadio in cui avveniva, e nel valore del consumo che ne faceva il pubblico.

La crisi economica e contenutistica della musica ha come prodotto di scarto un’allarmante disgiunzione cronologica. Nonostante le migliaia di tracce pubblicate ogni giorno, se si va in un club indie oggi, si ballerà la stessa musica che si ballava una quindicina di anni fa. Il fatto che Is This It è uscito 22 anni fa e Unknown Pleasures ha 43 anni è subordinato al nostro morboso rifiuto di crederci. Da qui il lungo revival del post-punk: la mancata innovazione culturale ha portato a una perenne risurrezione del passato. Dagli Interpol ai Molchat doma, sono almeno venti anni che la musica cerca di tornare negli anni ’80. Cosa c’era allora che adesso non c’è? Oppure, cosa non c’era allora che adesso c’è? Di sicuro, non c’era la “fine della storia”, come la chiama il politologo americano Francis Fukuyama per descrivere il collasso del socialismo e il trionfo del neoliberismo, e non c’erano nemmeno i vicoli ciechi della disattesa utopia digitale.

Forse quello che c’era, invece, corrispondeva all’idea, seppur pallida e problematica, di futuro. Se il primo post-punk (dai Joy Division agli Smiths, per intenderci) raccoglieva i cocci lasciati dal fallimento del punk per costruire, come lo definisce Simon Reynolds, un nuovo spazio di possibilità, il post-punk post-2000 raccoglie i cocci dei cocci per costruire un museo. La critica anticapitalista di Jameson e Fisher l’aveva capito sin troppo bene che nel postmoderno il pastiche e il revival sono le uniche forme di cultura possibili. La linea di sviluppo si trasforma in cerchio e l’imperativo dell’arte diventa preservare un ricordo di ordine. Il passato si può ora esplorare come terra straniera per scacciare un presente che non ci piace e un avvenire che ci dà ansia. Ah, se fossimo ancora negli anni ’80, tutto sarebbe diverso. Libertà di parola, fede nel progresso, fede nella scienza, nessuna catastrofe ambientale, niente social, niente precarietà, niente pandemia o vaccini obbligatori, eccetera, eccetera. Manuel Agnelli cantava che non si esce vivi dagli anni ’80. Di sicuro non se ne esce con una concezione lineare del tempo. Ad incapsulare il nostro presente ci sono le GIF, e per descrivere il ruolo della musica, i 15 secondi in loop di TikTok.

In questo contesto, l’ascesa del formato podcast non sorprende. Anzi, può essere vista quasi come una forma di protesta. Se la musica è questa, se è un sottofondo tutto uguale, se non articola una ribellione alla funzione di puro intrattenimento che le è stata assegnata, se nell’oceano di suoni non si riesce a distinguere nulla di innovativo, tanto vale sentire delle voci discorrere di qualche tema: almeno si impara qualcosa, o ci si fa una risata.

La musica, entrando nel digitale, non solo ha esaurito la capacità di rinnovarsi e di immaginare un mondo radicalmente diverso da quello in cui viviamo, ma ha anche accettato con entusiasmo di darsi come algoritmo. La musica non esplora più le possibilità di frizione tra le generazioni, ma balbetta l’assenza di futuro. Non è la colonna sonora di una protesta, ma il rumore di fondo della tecnocrazia. Certo, possiamo ancora tenerla alta nella nostra scala di valori, come in una teca impolverata, ma possiamo anche cambiare canale irritati. Il podcast, almeno, è genuino nella sua mancanza di pretese: per quanto i podcaster possano essere informati, in fondo, quello che offrono è una chiacchierata tra amici.

 

 

Photo by Reet Talreja on Unsplash

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