Spirali archimedee in letteratura

“Tre anelli” di Daniel Mendelsohn

di / 23 marzo 2022

Copertina di Tre anelli di Mendelsohn

Nell’approcciarsi a descrivere Tre anelli di Daniel Mendelsohn, uscito a novembre del 2021 per Einaudi nella traduzione di Norman Gobetti, la prima domanda con cui confrontarsi è di ordine puramente formale: che cos’è Tre anelli? È un romanzo oppure un saggio? Un memoir autobiografico o una serie di racconti intrecciati tra loro?

Il libro fa parte della collana Frontiere Einaudi: nata nel 2008 come «gemmazione dei Supercoralli, alla scrittura saggistica affianca una narrazione di cifra letteraria». Siamo di fronte a una commistione di generi dunque, ribadita anche nelle pagine finali e in particolare nei Ringraziamenti. Tre anelli nasce da una serie di conferenze accademiche – le famose Page-Barbour Lectures a cui in passato hanno partecipato anche personaggi del calibro di T.S. Eliot o Walter Lippman – tenute da Mendelsohn nel 2019 a Charlottesville, presso la University of Virginia.

Ma ogni frontiera presuppone un confine, che sia geografico o metaforico, che sia una linea da scavalcare o anche semplicemente un orizzonte a cui volgere lo sguardo. E l’uomo che vediamo in copertina sembra avere proprio i connotati caratteristici del viaggiatore: il trench che cade sciolto appena al di sotto del ginocchio, la ventiquattr’ore ben salda nella mano destra e il borsalino sul capo, formano un’iconografia che contribuisce a colonizzare l’immaginario del visitatore passeggero. Sullo sfondo il Corno d’Oro e l’ex Basilica di Santa Sofia con i suoi minareti in calcare bianco, e quindi Istanbul, città-confine essa stessa per poleogenesi, idealmente al limitare fra due mondi, quello occidentale e quello orientale. Non sappiamo ancora nulla di lui, né del suo vagare senza meta né dell’oggetto del suo cercare.

«Uno straniero arriva in una città sconosciuta dopo un lungo viaggio. Da qualche tempo è stato separato dalla sua famiglia; da qualche parte c’è una moglie, forse un figlio. Il percorso è stato travagliato, e lo straniero è stanco. Si ferma davanti all’edificio che diventerà la sua casa e poi comincia ad avvicinarsi: l’ultimo breve tratto dell’itinerario imprevedibilmente zigzagante che l’ha portato fin lì. Adagio, passa sotto l’arco che gli si spalanca davanti, diventando presto indistinguibile dall’oscurità, come il personaggio di un mito che scompare nelle fauci di un mostro leggendario, o negli orridi gorghi del mare. Si muove con difficoltà, le spalle ingobbite dal peso delle valigie. Lì dentro c’è tutto ciò che ancora possiede. Ha dovuto fare i bagagli di fretta. Che cosa contengono? Perché è venuto?».

Questo mantra, ripetuto ciclicamente, costituisce il passepartout attraverso il quale ci vengono presentate le diverse storie narrate, storie di esilio, narrazione e destino, come suggerisce lo stesso Mendelsohn nel sottotitolo dell’opera. Ma prima l’autore si preoccupa di stabilire una premessa: ripercorrendo brevemente i suoi trascorsi come scrittore – che lo hanno portato a vincere il Prix Médicis con Gli scomparsi nel 2007 e a pubblicare nel 2017 Un’Odissea: un padre, un figlio e un’epopea – e i viaggi affrontati per riportare in vita le memorie dimenticate che formano l’eredità del suo bagaglio culturale e il nerbo della sua poetica, Mendelsohn crea una sorta di sovrapposizione letteraria, un’identificazione fra il suo io e quello dei personaggi di cui narra le vicende, resa possibile grazie allo specchio formato da storie e destini sentiti come simili. E lo fa sulla falsariga di uno stile che strizza l’occhio al memoir, alternando una scrittura intimistica, che si snoda fra i ricordi del proprio passato, e una più accademica, tipica dell’esposizione saggistica, specialmente nei luoghi in cui presenta gli argomenti frutto di anni di studi zelanti.

Come nel suo libro precedente (Un’Odissea), anche qui il mito di Ulisse ha un ruolo propulsore, ponendosi quale trait d’union fra le matasse abilmente intrecciate dei vari episodi dalle tinte rapsodiche. Ma il poema omerico non è solo l’orizzonte letterario a cui tendere stabilendo paralleli e connessioni biografiche: è un libro-feticcio, il correlativo oggettivo di una vita la cui la cifra più intima è un vagare ignoto e il cui sintomo più evidente è uno sradicamento sociale coercitivo, non solo intellettuale ma anche geografico, terrestre. Uno di quei casi in cui, come ci insegna la psicologia di stampo freudiano, può essere utile per superare un dato evento traumatico ritornare sui propri passi, tracciando idealmente un percorso ad anello che ci ricongiunga con quel vuoto emotivo che nel presente permane irrisolto. È possibile così creare un cuscinetto, uno spazio in cui integrare all’interno di una narrazione coerente profondità ancora insondate, per dar loro un senso, un significato che possa essere metabolizzato intellettualmente.

Questa narrazione ha inizio con il libro XIX dell’Odissea. Dopo un lungo peregrinare Ulisse è finalmente riuscito a tornare a Itaca – il nome dell’eroe, ci ricorda l’autore, potrebbe risalire alla parola greca odynē, «dolore», un primo trauma già da espiare. Travestito da mendicante per poter entrare nel palazzo dove lo aspetta Penelope e valutare al meglio la situazione prima di agire, viene riconosciuto dalla sua anziana nutrice, Euriclea, grazie a una cicatrice sulla coscia che l’uomo polytropos si era procurato molti anni addietro, durante una caccia al cinghiale. È un momento di estrema concitazione, in cui ci si aspetterebbe di veder finalmente sciolti i nodi che tengono in tensione l’intera vicenda. Tuttavia, lungi dal voler risolvere questa suspense, Omero si rifugia abilmente in un lungo flashback, ritardando così il momento dell’agnizione, la definitiva esplosione emotiva della scena. È la cosiddetta composizione ad anello, una delle tecniche narrative più felici che coinvolge tempo e azione per creare un effetto di distacco dalla trama principale, effetto che però è solo apparente giacché alla fine questa digressione tenderà a riconciliarsi con la storia, formando un cerchio nel punto esatto da cui si era allontanata.

Il tema centrale di Tre Anelli, il fil rouge che collega idealmente i vari personaggi sulla scena – i quali, lo ricordiamo, hanno avuto in qualche modo a che fare con situazioni dolorose di esilio, subito o volontariamente scelto – e le loro storie è proprio questo. Una tecnica che richiama geometricamente la figura del cerchio, che può essere sia una forma di messa a fuoco che indice di una destinazione errata: girare in tondo è ritardare l’arrivo, ma cerchiare può essere anche un modo per richiamare l’attenzione, far risaltare qualcosa che ci sta particolarmente a cuore.

Costruendo un’architettura narrativa speculare al tema trattato, Mendelsohn finge un gioco di continui rimandi, in cui i diversi racconti si parlano tra loro concatenandosi all’interno di una struttura meticolosamente studiata che imita il principio delle scatole cinesi. Il trucco è tutto sommato abbastanza semplice e richiama quello più illustre utilizzato da Proust all’inizio della sua Recherche, quando l’odore della madeleine agisce sinesteticamente sui ricordi d’infanzia dell’autore francese, trasformandosi nella chiave che li libera dal nascondiglio in cui si erano rifugiati. Anche qui, grazie a una formula fissa e a una scena che ricorre ripetutamente, Mendelsohn definisce una storia formata da tre racconti incentrati su tre personaggi diversi (i tre anelli). La scena l’abbiamo già incontrata, si tratta del quadro con l’uomo che all’inizio sembrava essere in viaggio, con il trench e la valigia ben salda nella mano. Chi è?

Ecco che potrebbe essere Erich Auerbach, che nel 1936 fu costretto a fuggire dalla Germania nazista per rifugiarsi a Istanbul, dove scrisse uno dei suoi saggi più famosi, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale; oppure François Fénelon, l’arcivescovo francese autore nel diciassettesimo secolo di un romanzo pensato per essere l’ideale seguito dell’Odissea, Le avventure di Telemaco, e il cui intento pedagogico (il romanzo era stato concepito inizialmente per l’educazione morale e filosofica del duca di Borgogna) non piacque particolarmente al Re Sole che lo giudicò una velata critica del suo operato politico; infine potrebbe essere lo scrittore tedesco W.G. Sebald che scelse volontariamente l’esilio da un Paese ritenuto il principale colpevole degli orrori commessi durante la Seconda guerra mondiale, orrori percepiti come una ferita talmente profonda nella sua coscienza da farlo sentire direttamente responsabile. Proprio quest’ultimo è autore nei suoi libri di una prosa zigzagante, un continuo alternarsi di fatti e ricordi, fantasie ed esperienze vissute, dove oltre alla lingua partecipano a veicolare il messaggio altre diverse appendici documentarie, come possono essere le fotografie. Un esempio su tutti è Gli anelli di Saturno che, con le sue numerose digressioni popolate da strani incontri e interlocutori bizzarri, racconta un viaggio solitario in estate, e per lo più a piedi, nel Suffolk, dove Sebald visse fino agli ultimi anni della sua vita.

All’interno di questi tre ampi racconti, tutti quanti evocati dal quadro del viaggiatore sconosciuto, Mendelsohn ricava a intervalli regolari tutta una serie di digressioni che allargano lo spazio letterario, prestandosi a un gioco che ispessisce il materiale narrativo e si diverte a dilatarlo per poi con un colpo di coda farlo tornare al punto da cui aveva deviato. Il risultato è una matrioska di situazioni, una cornice più grande in cui sono inseriti brevi frammenti che non solo contribuiscono a fornire il nucleo principale della storia, ma servono anche a darle forma, modellandola a guisa di una serie di anelli concentrici che si dispongono in ordine fino a creare una spirale piatta.

Mendelsohn è un classicista esperto e, come sa benissimo, una delle parole derivate dal greco antico per “digressione” (parekbolē) significa anche “commentario erudito”. Il critico è un digressore per eccellenza: il suo compito è allontanarsi da un testo per trovare un percorso che al suo ritorno sia immensamente più ricco. E Tre anelli è proprio uno di questi percorsi, divaga dalle sue digressioni, si muove partendo da un’idea e da un’immagine per poi confluire in una serie di sentieri secondari, che man mano arricchiscono di sfumature il racconto originario. Un gioco di rimandi antico quanto la letteratura stessa, un viaggio che da Ulisse passa per Sebald fino ad arrivare a Mendelsohn, erede di quegli scomparsi – i parenti vittime della Shoah – a cui aveva destinato il suo primo romanzo. Sfogliando Tre anelli l’impressione che si ha è quella di leggere un’ode alla scrittura, quale forma intensa di evasione e di esilio da una realtà di cui spesso è il riflesso, una dedica pronunciata all’apparenza solo timidamente, come un bambino che vergognandosi si perdesse in giri di parole, ma che in realtà emerge con tutta la sua forza non appena si trova il centro della circonferenza, l’equilibrio fra i vari raggi che compongono l’area di questo anello potenzialmente infinito.

 

(Daniel Mendelsohn, Tre anelli, trad. di Norman Gobetti, Einaudi, 2021, 120 pp., euro 16,00, articolo di Davide Tamburrini)

 

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