Matematica delle parole morte

“Cittadino Cane” di Giordano Meacci

di / 1 giugno 2022

Copertina di Cittadino cane di Meacci

Lo scorso aprile ha fatto il suo esordio per la piccola casa editrice Industria & Letteratura una nuova collana di narrativa curata da Martino Baldi, L’invisibile, che si propone come obiettivo di «mostrare le infinite possibilità del racconto lungo, una misura poco frequentata dall’editoria attuale, e invece tanto gravida di possibilità come strumento di rappresentazione, approfondita e sensibile, anzi ultrasensibile, della realtà».

Il primo testo scelto come magnetografo per dare voce a questa «indagine sui sensi della realtà e della scrittura» è Cittadino Cane di Giordano Meacci, noto ai più per il romanzo Il cinghiale che uccise Liberty Valance, con cui è arrivato finalista al Premio Strega nel 2016.

Il libro si presenta in parte come omaggio al cineasta americano Orson Wells, riprendendo fin dal titolo quel Citizen Kane che in Italia sarà poi tradotto nel 1948 come Quarto potere, espressione che designa tutto l’apparato dei mass media e il loro ruolo fondamentale nella diffusione delle notizie, una presenza cruciale nella vita di Carlo Cane.

Nomen omen verrebbe da dire, anche se prima che il personaggio si trasformi definitivamente nella sua controparte ferina dovremo attendere la fine di queste pagine, specchio imperfetto del racconto di una vita ricostruita attraverso frammenti, schegge di ricordi, aberrazioni letterarie. La narrazione non segue uno sviluppo cronologico, ma si dipana alternando rapsodicamente episodi raccontati con registri e stili differenti, nel quale trovano spazio stralci di interviste, pagine Treccani, articoli di giornale e verbali giudiziari. Un concept book sfaccettato in cui la sperimentazione linguistica è al servizio della vita del protagonista, in un tentativo di ricostruzione che si propone di trapuntare fra loro alcuni dei momenti topici che l’hanno caratterizzata, illuminandone i coni d’ombra.

E così, cuci e ricuci, veniamo a scoprire che Carlo Cane (1969-2059) è nato a Firenze, ma che ha praticamente sempre vissuto a Rignano Barabba, paesino natale dell’omonimo personaggio biblico, che secondo una leggenda sarebbe sbarcato sulle coste esperie fino a giungere fra le colline del Chianti, e del padre, al quale assomiglia, ma non della madre, Laura, che ha lo stesso nome della sua ex moglie.

Informato della prossimità della sua morte («sei mesi un anno, ha detto il dottore») Carlo comincia un percorso a ritroso nella memoria, un percorso, è bene ribadirlo, che potrebbe non essere sempre puntuale, perché «c’è sempre un eccesso di pudore, nel mentire sulla propria vita; anche se lo facciamo tutti quando ci raccontiamo», e a volte ancora di più quando a raccontarci sono gli altri.

Non deve sorprendere quindi se Carlo è nato con gli attributi della regalità: portava in una mano uno scettro, un globo nell’altra, l’iconografia degli imperatori bizantini; solo che lo scettro era un bastoncino di legno scheggiato con in cima un gioiellino di plastica, mentre il globo una palla di vetro che racchiude un castello, il quale fa cadere la neve se capovolto. È il correlativo oggettivo di un’intera esistenza, anche perché poi la palla si rompe lasciando sul pavimento quello che resta, nient’altro che una manciata di neve finta e vetro, la desolazione di un paesaggio abbandonato.

Ma Carlo non è solo questo, e ce lo ricordano i tanti servizi del quarto potere: c’è una militanza politica in senso ultraconservatore, intrapresa con Forza Nuova prima, con Forza Italia poi, e infine con la Lega; un circolo di amicizie ambiguo che non disdegna figure del calibro di Putin, Berlusconi o l’emiro Omar Bin Dayez, colpevole di violazione dei diritti umani nel proprio Paese; ci sono colloqui, insegnamenti, brevi consigli pronunciati a mezza bocca («I giornali non esistono. I giornalisti non esistono. Esistono le notizie… Se il titolo è grande, le notizie diventano subito importanti»). Tutto accuratamente annotato, registrato, riportato alla fonte. Ma questa passione bibliografica e archivistica non ha lo stesso afflato di un racconto di Borges, non ha lo scopo di rendere più verosimile una ricerca erudita dalle tinte esoteriche, ma è al contrario il riflesso di un approccio moderno, lo stesso che mettiamo in pratica anche noi tutti i giorni, quando vogliamo informarci su qualcosa, che sia un fatto di cronaca o i dettagli salienti di un personaggio contemporaneo. E così ricostruiamo una notizia, raccogliendo pezzi di informazione disparati, frasi slegate che poi mettiamo insieme cercando di dare un senso a quanto letto, un accordo all’eventuale contraddittorio.

Eppure a volte può succedere che col tempo queste frasi si deteriorino, che non corrispondano più alla forma che si era data loro, o che un ricordo all’apparenza nitido muti improvvisamente lasciando spazio all’incertezza. Sono le parole morte, quelle fisse, decise per sempre: «[…] ho paura che rileggendole, risentendole… Cambino», dice Carlo. E curiosamente i lacerti di questo discorso dal retrogusto epifanico sono pronunciati da Carlo di fronte a un Berlusconi presidente della Repubblica (siamo nel 2026), in un incontro che avviene nella sala delle statue di Arcore: «E se non fosse vero che le ricordiamo male noi? […] Se fossero le parole a cambiare quando non le guardiamo?».

Ecco il dilemma di una vita, il cruccio spettrale che aleggia su un’esistenza fatta non solo di inchiostro e parole ma anche di righe fra le stesse: che i nostri pensieri, e le emozioni provate durante il cammino, non siano niente; che di noi non rimanga altro che un pc acceso, lo schermo aperto su una pagina di Wikipedia dove, al centro, in grassetto, campeggia solo il nostro nome: Carlo Cane (politico), mentre fuori la città «è una somma diffusa di blocchi e cubi, obliqui e verticali».

 

(Giordano Meacci, Cittadino Cane, Industria & Letteratura, 2022, 84 pp., euro 12, articolo di Davide Tamburrini)

 

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