“L’età dei miracoli” di Karen Thompson Walker

di / 23 agosto 2012

Sembra lo stesso. Identico al nome che batte anche quando non lo soffiamo. Un gemito azzurro scavato nel gas. Dal momento in cui abbiamo memoria. Lo guardiamo senza gli occhi, perché non ne ha bisogno per esistere di più. Eppure sotto, in mezzo, tra le fessure di spuma di quello che chiamiamo “cielo”, niente è davvero scontato. Per nessuno. Tanto meno per una ragazzina di undici anni. 

È lei la voce pulsante e poi narrante del libro d’esordio di Karen Thompson Walker L’età dei miracoli (Mondadori, 2012), in uscita il 28 agosto. Piantata nel petto della California, tra costole bianche di tetti tranquilli, c’è Julia, adolescente fin troppo qualunque. Non ha un viso che spicca, non tracima di brufoli o di pelle sblusata, ma non vanta nemmeno il manuale aggiornato della teenager di successo. È una tra le tante, che aspetta il bus per andare a scuola e poi confondersi ancora. Amalgamare il suo respiro con la massa bollente di quello dei compagni, mantecare gli umori perché non si distinguano e sperare ogni giorno di fare poco rumore. Sperare nell’angolo che la incornicia, pregare nel buio dei suoi pensieri di non essere notata, accorciare anche i passi per non entrare nel mirino di qualcuno che non le perdona di non avere ancora il seno.

Anche a questo servono le amiche, quando ci si sente così fragili, quando la lingua non impasta la risposta che vorresti, quando il mattino cade impietoso sulle gambe che non depili. Perché qualcuno in casa sentenzia che è presto. Peccato non debba essere quel qualcuno a trascinarle in giro mentre frusciano i commenti. Ma almeno Julia può contare su Hanna. E per rinfrancarsi le sembra abbastanza. Sono questi i suoi giorni, vacillanti di “vorrei”, di feste senza inviti, di posti vuoti accanto al suo.

Giorni sdruccioli, gommosi, insostenibili, che, un sabato improvviso, faticano a finire. Camminano sempre più piano. E non solo per lei. Rallentamento terrestre. Questa la notizia, uno spiffero inatteso, sgusciato dalla bocca di un telegiornale. Pochi minuti, quanto meno all’inizio, gocce che trasudano dalla superficie per colare assieme nello stesso imbuto. Quello dell’orologio.

Un’orogenesi del tempo, che accumula frattaglie, manciate di attimi sempre più spesse, fino a formare castelli, grotte impietose, sassi che non riparano, ma espongono solo ad altre paure. Le famose indiscutibili ventiquattro ore diventano opinabili. Diventano un corpo sempre più grasso, che non gira intorno al sole con lo stesso ritmo, che lo fa sbuffando. Che scova altre scuse per impigrirsi ancora. E mentre il pianeta sbadiglia, l’intera carovana di passeggeri a bordo reagisce a suo modo. Configurando le solite immutabili due categorie: apocalittici e integrati. Dentro e fuori. Ottimisti e catastrofisti. Chi urla allo scandalo, coprendo di barattoli tutta la sua angoscia, facendo scorte di bottiglie come fossero coraggio.

E chi segue la natura, chi si adegua alla lentezza, agli impulsi circadiani, assecondando cascate di luce quasi insopportabili e notti diluite, lunghe tante lune. L’universo si spettina, tutto il precario equilibrio su cui passeggia da funambolo il nostro ecosistema comincia a rotolare, gli uccelli si schiantano, i palloni resistono ai calci, le piante boccheggiano e poi stramazzano, da ultimi eroi di una stagione impossibile. E Julia, comunque, continua a vivere.

Nel matrimonio cigolante dei suoi, con la madre che si ammala della nuova sindrome diffusa e il padre che si difende come può, incappottato al meglio dentro i suoi silenzi o forse dentro un’altra scelta. Julia cresce, nonostante tutto, grazie a tutto, intasca amarezze, disillusioni. Vede Hanna allontanarsi e quando ritorna la sente ancora più distante. Senza comprenderne il motivo, forse solo perché si è stancata di lei. E poi s’innamora. Di un ragazzo solitario, che inforca il suo skateboard perché il mondo da fermo lo spaventa di più. S’innamora tremolando Julia, col timore di non essere all’altezza, accontentandosi di starsene in disparte, di sorseggiare la sua nuca dal banco dietro al suo.

Intanto la Terra si annoia e perde sempre più lancette durante la sua strada. Fino a non contarle più. Ogni frammento, anche il più ovvio, smette di esserlo. Ogni frase invoca il suo punto interrogativo. Tra poco albeggerà? La corrente funziona? Domani andrà meglio?

La sola certezza è la voce di Julia, il suo diario continuo, che registra influssi e cambiamenti, il moto terrestre che si rovescia in quello sociale, la rotazione e rivoluzione dei comportamenti umani sul ciglio di un palazzo che si sgretola, che quasi non ricorda cosa vuol dire essere intero. L’ossessione di sopravvivere s’innesta nel suo esatto contrario, restare solidi è difficile quando tutto il resto sembra liquefarsi, nel perimetro di un’undicenne come in quello di qualsiasi uomo.

E l’autrice ritaglia un perfetto punto di vista, quello debole e sottile di una ragazzina “accesa”, che osserva e penetra le cose, con una semplicità che inchioda le parole. Nell’anno in cui tanti i calendari gridano alla fine, questo libro trova la sua culla migliore. Senza scomodare esplosioni o effetti speciali, ha una lingua pulita e profonda, l’affilata intelligenza di soffermarsi su altri suoni, sugli spartiti delle storie personali, sui colpi e contraccolpi della tragedia presunta o annunciata. Sulla vita che, forse, sa avere la meglio sulle sue cicatrici.


(Karen Thompson Walker, L’età dei miracoli, trad. di Silvia Stramenga, Mondadori, 2012, pp. 250, euro 18,50)

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