“Big TV” dei White Lies

di / 30 settembre 2013

Ci vuole gran bel disco per riprendersi dalla rilassatezza vacanziera. Qualcosa di sorprendente, che ti faccia tornare la voglia di scandagliare con cura i bacini dell’indie rock. Uscito proprio alla fine di agosto, Big TV dei White Lies è il modo migliore per riaprire la stagione.

Chi pensava che i ragazzi di Ealing (Londra) ripetessero all’infinito la solita formula del revival post-punk – in maniera più o meno personale – stavolta verrà smentito definitivamente. Giunti al terzo disco, i White Lies alzano l’asticella della difficoltà, fornendoci il loro disco più bello. E considerando che i primi – To Lose My Life… e Ritual – non lesinavano in quanto a bellezza…

Il loro stile anni Ottanta, il cantato empatico e sofferto e i testi scritti dal bassista Charles Cave in bilico tra melodramma ed esistenzialismo adolescenziale, compongono ormai uno stile unico, che va oltre l’eredità di Joy Division e New Order, ma anche dell’ambito più pop ed elettronico degli anni Ottanta. Senza cedere al commerciale o a una forma più accessibile, i White Lies si concedono perfino il lusso di sfornare un concept: le vicende di una coppia di innamorati provenienti da lontano, persi nelle tante luci della metropoli. L’esito finale è notevole e sicuramente li farà apprezzare anche a chi è scettico o ancora non li conosce bene.

L’inizio è magnifico, degno della miglior introduzione cinematografica. “Big TV” è per impatto e atmosfera molto simile alla “Death” del disco d’esordio del 2009. Musicalmente ci sono tutti i tratti salienti: tastiere, la base elettronica, un basso ipnotico e il riconoscibilissimo stile vocale di Harry McVeigh. Ma per ampiezza di respiro e padronanza dei mezzi si ha fin da subito l’impressione di ascoltare il pieno stato di grazia.

Dopo la solennità della prima traccia di quasi sei minuti, arriva il più snello e sferzante primo singolo: “There Goes Our Love Again”. Basta un ascolto per averlo ben impresso. Uno struggente intermezzo strumentale – “Space I” – anticipa il sinfonico inizio di “First Time Caller”. Difficile trovare un brano debole in questo inizio: le seguenti “Mother Tongue” e “Getting Evil” sono due pezzi altrettanto belli. Ed ecco venir fuori il lato più romantico e struggente, con la soffusa e sentita ballata “Change”. Superato il secondo intermezzo strumentale – “Space II” – Big TV sembra mostrare un leggero debito d’ossigeno, ma i White Lies sono bravissimi a chiudere con mestiere fino alla conclusiva “Goldmine”.

E così, quello che poteva esser “solamente” un disco con cui riaprire degnamente dalle ferie estive, si trasforma in uno degli album che sicuramente ci accompagnerà per tutto l’anno.
 

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