“Il Grande Gatsby” di Baz Luhrmann

di / 17 maggio 2013

Dopo l’attesa presentazione al Festival di Cannes arriva Il Grande Gatsby di Baz Luhrmann, nuovo adattamento del classico del novecento di Francis Scott Fitzgerald con Leonardo Di Caprio nei (sontuosi) panni di Gatsby.

1922, New York. Il giovane e agiato Nick Carraway, dopo aver deciso di accantonare le sue velleità di scrittore, arriva in città da Chicago per avviare un’attività di broker a Wall Street. Trova alloggio in un modesto cottage a West Egg, centro dei nuovi, e volgari, ricchi, accanto a una villa fastosa e perennemente illuminata in cui ogni notte vede arrivare fiumi di automobili attratte dalla musica. È la residenza di Gatsby, misterioso magnate di cui nessuno sa nulla e con cui Carraway finisce per intrecciare un’inattesa amicizia. Scopre così che il milionario aveva conosciuto anni prima sua cugina Daisy, che vive dall’altro lato della baia con il marito fedifrago Tom, ex campione di polo, e con lei aveva condiviso un amore. Carraway si ritrova a tramare per farli incontrare di nuovo, mentre lo spirito delle feste e dell’alcol iniziano a prendere il sopravvento sul suo carattere mite e temperato.

Dell’enormità letteraria de Il Grande Gatsby non è qui spazio per parlare. La complessità di una scrittura apparentemente semplice che somma in sé la critica del sogno americano, il confronto che diventa contrasto tra vecchie e nuove élite, la decadenza morale di un impero prossimo al crollo all’alba della crisi del ventinove: un materiale maestoso, da storia delle letteratura, ma con cui non si riesce a fare la storia del cinema. Un primo tentativo di trasposizione, muto, risale al 1926, a un anno di distanza dalla pubblicazione del libro, a firma di Werner Baxter. Nel 1949 un nuovo adattamento a cura di Elliot Nuggent non ha lasciato il segno, ma è la versione del ’74 la più nota, fino a oggi. Scritto da Francis Ford Coppola, diretto da Jack Clayton, il Gatsby interpretato da Robert Redford con Mia Farrow come Daisy si è guadagnato anche riconoscimenti e nomination, ma non ha guizzi, intuizioni, segue il testo in maniera didascalica risultando rigido e freddo.

A distanza di quasi quarant’anni ci riprova Baz Luhrmann con un Gatsby colorato e frenetico, pop in tutte le sue espressioni, pieno di contaminazioni ultracontemporanee, dalla colonna sonora a firma Jay-Z, allo sfarzo e devasto delle feste in villa che alternano momenti degni di Ibiza a suggestioni mutuate dalla Fantasia disneyana. In qualche modo, il regista australiano compie un’operazione uguale e contraria a quella fatta con Romeo+Giulietta: se lì immergeva Shakespeare nella realtà dell'immaginaria Verona Beach anni novanta, creando contrasto tra l’ambientazione moderna e il parlare in versi, qui invece filma i ruggenti anni venti con un’estetica ipermoderna che rende un’immagine contemporanea della frenesia jazz di quella New York e di quegli Stati Uniti.

La scelta stilistica – o piuttosto il nome stesso di Luhrmann – è stata oggetto di critiche prima ancora dell’uscita del film. L’approccio, che si attendeva irriverente, a un classico della letteratura alta da parte di un autore votato allo spettacolarità più che alla contemplazione lasciava presagire il peggio. In verità c’è da dire che l’esperienza del regista di Ballroom nel filmare scene corali e coreografiche garantisce una prima parte divertente e frenetica, a tratti spettacolare. L’eccesso e la magnificenza ricordano da vicino Moulin Rouge, il precedente ingombrante da cui Luhrmann non riesce a liberarsi. Perché da Moulin Rouge viene ripreso anche il modo della narrazione, con Carraway (interpretato da Tobey Maguire) banalizzato a scrittore febbrile e sofferente che batte a macchina la storia di Gatsby in un’inutile e inventata cornice in un sanatorio mentale che rende i due film praticamente sovrapponibili nella prima mezz’ora.

Proprio la voce sofferta di Carraway nella ricostruzione della vicenda finisce per semplificare la mostra di quei sentimenti e di quella nota di malinconia che nel libro sono accennati piuttosto che esplicitati. Così, è nel momento in cui si spengono le infinite luci di casa Gatsby che Luhrmann mostra le sue debolezze. Sorretta comunque da un Di Caprio, ancora una volta, magistrale nel rendere il sogno e l’immaginazione del suo personaggio, la seconda parte del film, quella in cui risorge, cresce e muore l’amore con Daisy, non ha spessore, profondità, finisce per annoiare. Il contrasto tra il primo tempo di musica e fuochi d’artificio e la decostruzione di un amore del secondo è troppo marcato, poco omogeneo.

Un Gatsby cinematografico all’altezza del libro è ancora lontano da essere realizzato.

 

(Il Grande Gatsby, di Baz Luhrmann, 2013, drammatico, 142’)

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