“Love This Giant” di David Byrne & St. Vincent

di / 8 ottobre 2012

Il termine stile acquisisce la connotazione semantica a noi nota nel XV secolo, quando si definisce quale forma costante dell’arte di un individuo che si configura in determinate qualità o caratteristiche estetiche. Per ascoltare e comprendere a pieno la parabola artistica di David Byrne occorre invece recuperare l’accezione latina del termine, in uso nell’Europa pre-rinascimentale, la quale indicava, più che le qualità esterne dell’opera d’arte, un metodo d’azione antropologicamente determinato. L’attenzione si sposta così dagli esiti formali-musicali all’approccio artistico che li determina ed è in questo senso che lo stile byrniano diventa estremamente interessante: le realizzazioni concrete della sua musica sono infatti state le più disparate, dalla new wave dei Talking Heads alle sperimentazioni etnico-elettroniche con Brian Eno (My Life in the Bush of Ghosts, Sire/EG, 1981), dalle colonne sonore con Ryuichi Sakamoto (The Last Emperor, soundtrack, 1988) alle musiche per balletti (The Catherine Wheel, Sire Records, 1981) e Fatboy Slim (Here Lies Love, Nonesuch, 2010). Quest’eterogeneità di fonti e fini vengono legati insieme, accompagnati e alimentati, da un habitus mentale, una costante disposizione d’animo, che si può ricondurre a un inesauribile bisogno di studio, curiosità e ricerca sonora. Lo stile di David Byrne diventa così una visione del mondo, un modo di agire, espressione di un pensiero molteplice, che chiama a sé, in quest’ultimo Love This Giant (4AD, 2012), Annie Clark, in arte St. Vincent, nuova stellina del firmamento rock a stelle e strisce.

Un dialogo artistico inter-generazionale – del 1952 lui, del 1982 lei – che in tre anni di lavoro ha prodotto dodici tracce sinuose e magistralmente costruite. L’oggetto indagato stavolta è la brass band, elemento di non secondaria importanza nell’evoluzione della musica statunitense caduto un po’ nel dimenticatoio ai giorni d’oggi. Un esperimento decisamente interessante, soprattutto perché condotto con mano esperta, d’artigiano d’altri tempi, che non si accontenta di una semplice rivisitazione degli ottoni, ma ne re-inventa il ruolo all’interno del panorama musicale contemporaneo esplorandone tutte le possibilità. Centrale è infatti l’interazione ritmica, melodica e armonica che la nutrita sezione di fiati intesse con architetture musicali pop, un pop raffinatissimo e di un’eleganza sopraffina, che fa uso di elettronica impercettibile e strutture allo stesso tempo agevoli e variopinte. Riducendo all’osso si può concepire quest’album come un’interazione tetraedrica tra le voci di David Byrne e Annie Clark, l’universo pop e la brass band.

Si può così sentire quest’orchestrina di tromboni, sassofoni, trombe e corni francesi esibirsi sui percorsi sincopati tipicamente funky di “Who”, primo singolo estratto – non perdetevi assolutamente i balletti robotici e scattosi di un Byrne in gran forma nel videoclip –, oppure soffermarsi, tra pensose sfumature e trame interne, mentre culla la soffice voce di Annie Clark in “Ice Age”. La scrittura dei fiati è sicura, fluida e recita con contrappuntistica precisione la parte di co-protagonista assoluta di molti brani, senza mai perdere il piacere/bisogno di lanciare semi sperimentali qua e là. Il disco scivola via tra richiami ritmici à-là Talking Heads (“Weekend in the Dust”) e finti gospel vellutati, che si aprono tra bassi pulsanti, batterie trip hop e canto etereo (“I Am an Ape”). La conclusione è d’alta classe: una tenera ballata dal futuro (“Outside of Space & Time”) si sviluppa su un canto morbido, scivolando lenta tra trasparenti inserti elettronici e tessiture di fiati, passioni leggere e ricordi gentili.

I debiti, le influenze e i rimandi presenti in questo disco riflettono i multiformi interessi di un genio camaleontico, divorato da una curiosità senza limiti e da una dedizione impareggiabile nello studio delle capacità espressive della musica. Facendo una rapida ricognizione sulla sua radio online – il consiglio per tutti gli amanti della musica è di visitarla periodicamente, ne vale veramente la pena – ci si rende conto, ascoltando la selezione di settembre dedicata all’uscita del disco (Brassy! Love This Giant influences and inspirations), di quanti siano gli artisti e i generi ai quali Byrne si è rifatto per la composizione del disco: si va dalla bossa nova di Caetano Veloso al funk di Bustin Loose nella versione tutta fiati dei francesi CQMD, fino alla nostrana Orchestra di Piazza Vittorio.

Per concludere, un disco ottimo, accessibile e innovativo al tempo stesso, che mentre descrive l’attualità di una brass band in un contesto moderno recupera nella stessa modernità metropolitana lo spunto per le sue liriche. Stavolta Byrne non si distacca da un suo metodo collaudato: trarre dalle nevrosi metropolitane l’ispirazione creativa per descriverle, de-potenziandole e innalzandole ad atto artistico. «The threat of natural disaster promises emotional epiphany», si legge nelle note: «Urban apocalypse gives way to a garden party».

Senza nulla togliere all’ottima prova di Annie Clark, che oltre a esprimere una splendida vocalità risulta co-autrice in ben dieci brani, ancora una volta risulta chiaro chi è il gigante da amare.
 

  • condividi:

Comments

News

effe

“effe – Periodico di altre narratività” numero dieci

“effe – Periodico di altre narratività” numero dieci

Archivio