“Prisoners” di Denis Villeneuve

di / 5 novembre 2013

Due famiglie di vicini, i Dover e i Birch, trascorrono insieme il pranzo del Ringraziamento. Nello stravacco postprandiale le due figlie piccole, Anna e Joy, spariscono. C’era un camper parcheggiato vicino a casa Birch, con qualcuno dentro, lo avevano visto prima anche gli altri due figli adolescenti. Il detective Loki della polizia si mette subito alla ricerca del camper. Lo trovano, lo guida un uomo con il quoziente intellettivo di un bambino, inoffensivo, inespressivo e innocente per assenza di prove. Non può essere trattenuto. Keller Dover, il padre di Anna, lo crede comunque colpevole e dà inizio a delle indagini personali non propriamente legali, mentre sua moglie cede al conforto degli psicofarmaci. Loki si troverà a dover sospettare anche di Dover, sempre più evasivo e aggressivo, mentre scopre segreti sepolti in praticamente ogni cantina della cittadina della provincia Usa.

Il canadese Denis Villeneuve firma con Prisoners il suo esordio hollywoodiano dopo essersi fatto notare nel 2011 con La donna che canta (nomination all’Oscar per il film straniero). Parte subito con un grande budget e una serie di nomi prestigiosi guidata dalla coppia Hugh Jackman (Keller) e Jake Gyllenhall (Loki) e con un cast tecnico di primo livello in cui spicca il direttore della fotografia Roger Deakins (Fargo, Skyfall). Proprio la fotografia di Deakins chiarisce da subito, con i suoi colori lividi, che siamo di fronte a un film oscuro, che guarda nelle tenebre dell’agire umano e nel buio della speranza. La domanda di fondo è semplice ed enorme: quanto in là si è disposti a spingersi dall’idea comune di morale e di giusto per difendere chi si ama. Ognuno risponde come crede. La risposta di Keller è che è lecito allontanarsi tanto quanto è necessario, cercando verità e giustizia anche nella violenza.

Keller è un uomo che vuole essere pronto a ogni emergenza, per questo porta il figlio a caccia, perché il giorno in cui un terremoto, un’alluvione o qualsiasi altro cataclisma dovesse sospendere la società civile così come la conosciamo sia in grado da solo di procurarsi l’indispensabile, cioè il cibo. Come il personaggio di Sean Penn in Mystic River, ma senza il bagaglio dell’esperienza criminale, Keller si sostituisce alla polizia, che vede incapace, per provvedere alla sua famiglia e cercare la verità sulla figlia sparita. Lo fa con la sola determinata convinzione della disperazione, andando a cercare la verità nella mente di un disabile senza trovare modo migliore per tirarla fuori se non i cazzotti.

«Pray for the best, prepare for the worst», ripetono i protagonisti del film, e la preghiera non manca mai. Pregano tutti: Keller prima di uccidere un cervo, i vari sospettati, le madri strappate dalle loro figlie. Sembra che il senso principale di Prisoners sia quello di indagare la condizione dell’uomo abbandonato dal dio più volte invocato. La vocazione alla fede dei personaggi è forte in modi differenti – tatuaggi, preghiere, delusioni – ma la religione vera e propria non appare se non nella figura del prete pedofilo alcolizzato. L’uomo è lasciato solo ad affrontare il suo mondo, senza un appiglio ultraterreno. La fede è una speranza o risorsa per l’angoscia della morale. Si chiede perdono a dio per il male che si ritiene necessario ma che si riconosce come male, come amorale, come inumano. Un aiuto, o anche una punizione, dall’alto sono attesi come unico conforto per un mondo che lascia gli uomini soli l’uno contro l’altro.

Concentrandosi soprattutto sul messaggio, Villeneuve e lo sceneggiatore Aaron Guzikowski (Contraband) finiscono per perdere di vista alcuni aspetti della trama. L’impianto poliziesco di Prisoners, seppur ben congegnato e capace di mantenere alte tensione e attenzione dello spettatore nonostante il massiccio minutaggio, si perde nel finale affrettato e in alcuni passaggi contorti che risentono degli eccessivi elementi aggiunti nelle indagini di Loki alla ricerca del continuo colpo di scena.

Non si capisce molto il senso della famiglia Birch (Viola Davis e Terrence Howard), all’inizio apparente contraltare etico alla violenza di Keller, poi sempre più marginalizzata dalla storia fino a sparire. Le stesse dinamiche interne della famiglia Dover perdono di rilevanza col passare dei minuti per concentrarsi sul solo Keller.

Paul Dano nella parte del minorato è molto bravo. La scelta di Melissa Leo, seppur convincente, per la parte dell’anziana zia rivela un po’ troppo in fretta il suo vero ruolo.

(Prisoners, di Denis Villeneuve, 2013, thriller, 153’)

 

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