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L’epopea infranta. Retorica e antiretorica per Garibaldi

di Ornella Spagnulo / 11 luglio

In coincidenza con il centocinquantesimo anniversario dell’unità d’Italia, esce il saggio di Massimo Onofri L’epopea infranta. Retorica e antiretorica per Garibaldi (Medusa). Il saggio indaga sul mito di Garibaldi, su come si è articolato nel corso degli anni dalla prospettiva dell’Italia di oggi, dove di miti forse non ce ne sono più. E soprattutto politicamente ne avremmo bisogno.

Massimo Onofri, critico militante e docente universitario di letteratura contemporanea, esamina le radici contaminate dell’unificazione della penisola. Viene da pensare alla famosa canzone di Battiato: “Povera patria”. L’epopea infranta parla degli scrittori che nel tempo hanno descritto Garibaldi, da Pascoli a Pirandello, da Carducci a D’Annunzio. Immagini che hanno contribuito a formare un mito esistente già nel popolo, e più che altro a imprimerlo su carta e a farlo sopravvivere intatto, quasi immacolato. Accanto a loro ci sono i pittori, che adoperano un linguaggio ancora più vicino al popolo. Come nell’iconografia cristiana antica. E di iconografico il mito di Garibaldi ha molto: è stato associato, negli anni, a un nuovo Cristo, al nuovo Salvatore. Stavolta di una salvezza tutta terrena.

Racconta Onofri la figura di Garibaldi come ponte tra un’Italia divisa in regioni e un’Italia finalmente unita. Un’Italia che però si ritrova dominata da un re e che sfocerà – catastrofe! – in una dittatura, neanche un secolo più tardi. Garibaldi è stato l’eroe delle folle tradite, circondato, senza neppure volerlo, da un’aura di santità. La “religione garibaldina”, espressione del Garboli, non era solo di Pascoli, dunque, ma aveva conquistato un po’ tutti. Pascoli, però, scriveva anche della sua “divina anima di fanciullo”, e quindi il “processo di monumentalizzazione” di Garibaldi, scrive Onofri, “non cancella la puerilità di partenza” dell’eroe, in Pascoli.

Nel personaggio di Garibaldi convivono il bene e il male dell’Italia. Il critico riporta passi da saggi del periodo e posteriori: li paragona, li commenta, restituendo di quel momento storico tutti i sapori, quello dolce della vittoria, quello amaro della monarchia, quello insopportabile, infine, del fascismo. La storia, così, s’incrocia con la letteratura e con la pittura e la scultura. In un modo a cui Onofri ci aveva già abituato con il saggio Il suicidio del socialismo. Inchiesta su Pellizza da Volpedo (Donzelli, 2009), dove l’arte prefigurava la storia, e dove l’ispirazione anticipava la vita, cioè la morte.

Concludendo allora con i pittori, Giovanni Fattori è definito come “il pittore di un’epopea infranta”, con quel libro tra le macerie, nel quadro Garibaldi a Palermo (1860-1862), che testimonia “quello scempio di civiltà che è il portato di ogni guerra”, nota Onofri. E infine Renato Guttuso: con La Battaglia di Ponte dell’Ammiraglio (1952) “non ha voluto rappresentare un episodio della spedizione dei Mille, ma la continuità della lotta popolare, degli eterni garibaldini contro gli eterni borbonici”, scriveva Argan.