Libri
“Nel mare ci sono i coccodrilli”: a tu per tu con Fabio Geda
di Benny Cicconi / 23 luglio
Prima de Nel mare ci sono i coccodrilli, nel 2007 hai pubblicato Per il resto del viaggio ho sparato agli indiani. Tutti e due i due romanzi sono un viaggio; tutti e due i romanzi tessono la storia di un piccolo protagonista; solo che una storia è frutto della tua immaginazione, mentre l'altra è completamente reale. Quando hai sentito e raccontato la storia di Enaiatollah, non hai pensato che la realtà, nel suo lato drammatico e nei suoi aspetti sorprendenti, supera di gran lunga l'immaginazione? Che connessione c'è, se c'è, tra Emil ed Enaiat?
Che la realtà superi di gran lunga la fantasia, soprattutto quando si tenta di raccontare la società, è cosa nota. Io l’ho scoperto lavorando come educatore, occupandomi di disagio minorile, e ne ho avuto la conferma sentendo Enaiat raccontare la sua storia una sera di quattro anni fa, quando ci siamo conosciuti. Ciò che ci ha spinto a lavorare insieme sono state proprio le affinità tra Enaiat ed Emil, affinità di sguardo, soprattutto. Entrambi guardano all’esistente con stupore e fiducia, ovunque si soffermano i loro occhi ecco che subito germina la vita, la speranza.
Parlando del tuo libro hai fatto riferimento alla "storia dell'invisibilità" che emerge tramite la penna dello scrittore e al recupero del passato; Enaiat, ad un certo punto del racconto, compra un orologio, un orologio che segnasse la data, un orologio che mi dicesse di quanto stavo invecchiando. Lo stesso Enaiat ha poi dichiarato che la sua più grande paura è il silenzio. Quanto conta il ricordo e la sua documentazione nella vita di una persona? Cosa è significato, per te, appropriarti e restituire al mondo la storia di una vita invisibile; infrangere un silenzio e alleviare la paura di Enaiat?
Enaiat, durante il viaggio, vive in un tempo che io chiamo verticale: è il tempo della fuga e della paura; è un tempo che non si connette con il passato (troppo doloroso da ricordare e in parte addirittura sconosciuto) e neppure con il futuro (troppo doloroso da sognare, perché le possibilità che i sogni si realizzino sono infinitesime). Enaiat vive in un eterno presente, in un eterno qui e ora, mette insieme l’alba col tramonto, una colazione con una cena, e questo e quanto. Molto diverso dal nostro tempo orizzontale che è fatto di ricordi di infanzia, di foto al mare o durante la prima comunione, e di proiezioni sul nostro futuro (dopo le medie mi iscrivo al liceo e da grande farò il medico). Ecco allora il senso dell’orologio, ma anche della mia operazione. Enaiat ora dice: “Io non ho mai avuto un album delle foto di me bambino. Ora, con questo libro, è come se lo avessi. Ora posso riguardarmi com’ero e fare la pace con la mia stessa esistenza”.
Il libro mantiene, nel corso della narrazione, la freschezza e la leggerezza delle parole di un ragazzino, anche quando racconta situazioni atroci. Così ci si scopre a guardare gli avvenimenti da dentro gli occhi di Enaiat: il suo professore freddamente ucciso; le persone morte, in uno degli estenuanti viaggi di rimpatrio, senza che nessuno se ne sia accorto. Ma, in alcune occasioni, quando lasci lo spazio al dialogo diretto, Enaiat sembra dotato di una profonda saggezza che lascia attoniti: "La speranza di una vita migliore è più forte di qualunque sentimento. Mia madre ad esempio ha deciso che sapermi in pericolo lontano da lei ma in viaggio verso un futuro differente, era meglio che sapermi in pericolo vicino a lei, ma nel fango della paura di sempre". Il miraggio di un futuro differente, lontano dalla paura, seppure separato dalle proprie radici, è questa, secondo te, una legge universale, un sentimento trasversale, che attraversa la storia dell'umanità?
La storia dell’uomo è una storia di migrazioni. E nessuno emigra per il gusto di farlo. Si parte per necessità: guerre, carestie, povertà. Il tempo che l’uomo passa sulla Terra è speso da tutti per migliorare o mantenere le migliori condizioni di vita che ci possiamo permettere. Per svariati milioni (forse miliardi) di persone, questo significa lasciare con dolore la propria casa e cercarne un’altra, in qualche altro luogo del mondo. Sono sempre stupito da chi pretende di fermare questi movimenti alzando delle mura. Le mura cadranno, le farà cadere il vento della Storia, come ha già fatto. Ma quando un muro cade, il rischio è farsi male.
Anche se hai dichiarato di non esserti appropriato del mondo afgano, hai comunque il pregio di mettere il lettore a contatto con un pezzo di realtà ignota, di aprire gli occhi, ad esempio, sulla persecuzione di un popolo nei confronti del suo stesso popolo. Scoprendo questa realtà, hai pensato a quanto in occidente generalizziamo, senza conoscere nulla, davvero nulla, di ciò che c'è, e c'è stato, in Afganistan? C'è la possibilità di evitare che i bambini e gli adulti italiani abbiano gli occhi chiusi sui mondi "altri"?
Io tento sempre di specificare che raccontare una storia non rende lo scrittore un antropologo, un sociologo, un esperto di conflitti – rendere l’autore un tuttologo è uno dei rischi di certa spettacolarizzazione della cultura. Ma certo raccontare una storia apre gli occhi dello scrittore (e si spera anche del lettore) su mondi che crediamo di conoscere e di cui, invece, appena ci avviciniamo un po’, ci accorgiamo di non sapere nulla, o sui quali avevamo calato un velo di preconcetti e stereotipi. Educare i bambini all’approfondimento è importante e le storie, libri come questo, possono fare la loro parte.
Un'ultima domanda. Il premio Strega l'ha vinto "Storia della mia gente". Seppure il libro di Nesi ha un taglio ed un'intenzione completamente distante da quella della tua opera, volevo chiederti se trovi una qualche connessione tra una storia che parte da lontano, come la tua, e la storia di Nesi, che parte da una piccola città italiana, soffocata dalla presenza dell'"altro". Le persone che arrivano in occidente sembrano aver raggiunto una meta, mentre la loro odissea, in realtà, si profila interminabile. Intravedi una comune drammaticità nel percorso e nell'approdo?
Le connessioni ci sono, certo. Perché “l’altro” è, spesso, il nostro dirimpettaio, il vicino di casa o di scrivania, quello che ha il garage accanto al nostro. Enaiat è rimasto “altro” fino a quando non ha ricevuto il permesso di soggiorno come rifugiato politico. Ha continuato a viaggiare (dentro di sé) ancora per diversi anni dopo che si era stabilito in Italia. Per questo è necessario accompagnare il migrante alla scoperta del nostro mondo, e accoglierlo con tutti gli sforzi possibili: chiedendo impegno da parte sua, ma impegnandoci noi, parlando di doveri e diritti, in egual misura.