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Musica

“Clay Class” dei Prinzhorn Dance School

di Valerio Torreggiani / 11 febbraio

A cinque anni di distanza dall’eccellente disco d’esordio, vede la luce Clay Class, seconda fatica del duo britannico Prinzhorn Dance School, composto dai musicisti e artisti visuali Tobin Prinz e Suzi Horn, che con questo nuovo album sviluppano i temi già chiaramente presenti nel loro primo lavoro.

I topoi che ritornano lungo tutto il discorso musicale dei Prinzhorn Dance School sono rintracciabili nell’essenzialità grammaticale della loro musica la quale, unita a una estrema semplicità e linearità sintattica, ha come scopo principale quello di improntare una ricerca sonora capace di portare allo scoperto le strutture portanti della musica rock. I due musicisti, provenienti da quel grigiore affacciato sulla Manica chiamato Brighton, propongono una vera e propria radiografia post-punk che passa ai raggi X il rock. Inoltre ne fa oggetto di indagine filologica mostrandone le componenti basilari, gli elementi primari di cui esso si nutre, le fondamenta su cui poggia: è la ricerca di una lingua mentis sonora unica, una chomskyana grammatica universale della musica pop-rock della seconda metà del ’900.

Le composizioni proposte in questo nuovo Clay Class vivono così di un’architettura minimale che non lascia (quasi) mai spazio a fronzoli, che esclude il superfluo per concentrarsi esclusivamente sull’essenziale: troverete un prodotto minimale, dalla scelta degli strumenti ai suoni, dalle liriche alle melodie. I Prinzhorn Dance School propongono un’estetica musicale ermetica, dove l’organizzazione del materiale sonoro segue geometrie elementari fatte di spigoli e rettilinei. Tutto viene ridotto alla propria essenza, seguendo un percorso evolutivo a ritroso che mira a un recupero retro-futurista del primitivo. Come il rock, che si mostra qui disidratato e ridotto all’osso, anche gli strumenti suonano asciutti, compressi, destinati a non fare nient’altro se non quello per cui furono in passato pensati e costruiti: la batteria è un motore metronomico sul quale incisivi giri di basso fanno muovere i brani – meraviglioso quello di “The Flora and Fauna of Britain in Bloom” – , mentre la chitarra taglia quel che la voce tenta melodicamente di cucire. Il tessuto sonoro è rarefatto, adatto per riscopre il gusto di ascoltare una frase di chitarra capace di diventare un vero e proprio evento, come nell’iniziale “Happy Bits”, in cui una stessa cellula melodica viene ripetuta e traslata diatonicamente diventando essa stessa il ritornello del brano.  

In ogni discorso culturale, in ogni scambio interculturale, qualsiasi sia la disciplina in esame, a circolare non sono mai delle verità sul mondo, bensì le sue diverse rappresentazioni. La musica non fa in questo caso eccezione e l’arte dei Prinzhorn Dance School ci restituisce l’idea di una realtà scheletrica, di un ossimorico nuovo ordine nevrastenico, delineato tra modelle anoressiche e metropoli asfissianti. Si potrebbe prendere come dichiarazione-manifesto il brano “Sing Orderly”, che chiarisce le intenzioni di tutta la musica del duo britannico fin dal titolo: il tentativo di mettere ordine in una caotica post-modernità musicale. Lo spazio sonoro prodotto trova quindi sviluppo naturale lungo una direttrice verticale, intorno alla quale ruota un’austera e primitiva modalità di espressione delle emozioni: c’è così spazio anche per dichiarazioni d’amore post-punk (“I Want You”), dove l’ermetica scatola magica del duo britannico si apre per un momento, scoprendosi in un timido e inatteso arpeggio di chitarra che oscilla tra il dolce e il misterioso, svelando una shakespeariana malinconia, triste compagna dagli occhi scuri. Le voci all’unisono dei due artisti racchiudono la semplicità dei sentimenti primari, mettendo in crisi l’idea del profondo come unico spazio di vera riflessione. La profondità è qui a fior di pelle, rimane in superficie senza per questo perdere di spessore.

Le influenze che si possono ritrovare in questo lavoro sono veramente tra le più disparate, confermando la bontà del progetto musicale di Prinz e Horn, i quali si dimostrano ancora una volta capaci di recuperare i più disparati stilemi artistici propri di una gloriosa stagione passata, principalmente gli anni ’80 ma non solo, riattualizzandoli allo scenario contemporaneo con indubbia originalità e un gusto melodico prettamente british. Si percepiscono così echi di Joy Division nel pulsare del basso su “Seed, Crop, Harvest”, mentre le artificiali ritmiche chitarristiche punk-funk su brani come “Usurper” e “Your Fire Has Gone Out”, riportando alla mente i febbrili deliri avanguardistici di James Chance ai tempi dei Contortions, sembrano quasi un James Brown sottovuoto, depotenziato e rivoltato contro sé stesso. Aleggiano sullo sfondo anche le evoluzioni ritmiche dei primi Gang of Four, gli spasmi robotici dei Devo, le articolazioni proto-industriali dei Clock DVA e le melodie semplici e accattivanti che non possono non far venire in mente Depeche Mode, Beatles, Who e tutto il bagaglio melodico tipicamente inglese. Maneggiare un’eredità e un’influenza musicale di questo calibro non è assolutamente un compito facile o banale, soprattutto se il risultato è quello che abbiamo qui tra le mani: il rischio che tutto esploda in un confusionario e pantagruelico put-pourri è sempre dietro l’angolo, ma l’umiltà nell’approccio tiene ancora lontani i Prinzhorn dal baratro.

Rispetto al precedente questo disco suona in ogni caso leggermente più oscuro e misterioso. Forse nel complesso è leggermente in calo, ma la produzione musicale dei Prinzhorn Dance School è destinata comunque a far discutere. Siamo di fronte a uno di quei tipici casi in cui il pubblico e la critica si dividono in due blocchi divisi e contrapposti tra coloro che li osannano come la next big thing del panorama underground e chi relega il tutto a esperimento poco riuscito. La linea di demarcazione molto netta è certificata anche dalle due recensioni che apparvero nel 2007 sul The Guardian che, per non sbagliare, in occasione dell’uscita del primo disco, fece uscire due recensioni, un grande elogio e una sonora bocciatura. Personalmente tendo più ad inserirmi nel primo gruppo, con una piccola clausola finale: rimanere sull’orlo del baratro sarà nel il futuro un esercizio complicatissimo. Per funzionare, infatti, questa macchina necessita di un sottilissimo bilanciamento negli arrangiamenti – l’organizzazione del materiale sonoro, quando esso è limitato, diventa infatti essenziale ai fini della resa complessiva – e di felici intuizioni melodiche. Se saltano questi equilibri salta tutta la musica dei Prinzhorn Dance School. Nel frattempo godiamoci comunque questa splendida uscita discografica, che fa il paio con quella di cinque anni fa e che ci conferma una realtà musicale importante, da tenere assolutamente sott’occhio, con la speranza che non manchino mai le felici intuizioni che hanno accompagnato il duo britannico fino a questo momento.