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Cinema

“Magnifica presenza” di Ferzan Ozpetek

di Maria Cristina Mannocchi / 19 marzo

Quando ho saputo la trama di Magnifica presenza ho pensato a The Sixth Sense, ai Sei personaggi in cerca di autore e a un ingiustamente dimenticato Fantasmi a Roma di Antonio Pietrangeli sceneggiato da Flaiano e Scola, il tutto messo insieme: un ibrido che mi convinceva poco.
Ma Ozpetek è Ozpetek e dunque sicuramente avrebbe dato un senso nuovo a strutture narrative sempre buone da raccontare.

Perché che ci siano case, luoghi e quartieri della capitale abitati da presenze non usualmente nei corpi, è una cosa che tutti i romani sanno e non se ne stupiscono più di tanto. Un mio amico dottissimo e laico professore di storia e filosofia in pensione, fa ora la guida al museo di via Tasso. Tempo fa lo incontro e gli dico: «Come ti trovi a passare tutte le giornate lì con quelle presenze?» E senza un minimo stupore mi risponde: «No, io ci sto poche ore e non mi danno noia, ma ieri parlavo con gli inquilini che abitano sopra il museo e in effetti per loro non è una convivenza facile».
I luoghi dove sono morte persone in modo violento e ingiusto trattengono le loro anime che non sanno andare oltre quel dolore? Consapevolezze antiche oggi raccontate in abbondanza da telefilm post-newage: basta farsi un giro panoramico su Rai4 (diamo a Freccero quello che è di Freccero e senza censure perché la sua rete ci mostra il lato oscuro del nostro immaginario, dei nostri incubi peggiori, il problema semmai non è cosa trasmette, ma come guardare in modo critico ciò che trasmette…).

E dunque Ozpetek mette le mani su questo tema così già saccheggiato, in cui è così facile sprofondare in banali stereotipi pseudo metafisici di buon mercato. Lo fa tra l’altro tornando sui suoi passi, perché già ne La finestra di fronte aveva sovrapposto presente e passato, la Roma di oggi con quella dell’occupazione nazista, della deportazione degli ebrei il 16 ottobre del 1943, episodio storico che il cinema italiano non ha ancora narrato con sufficiente attenzione. E se lì c’era uno struggente Massimo Girotti, qui c’è la magnifica cinica presenza di Anna Proclemer, che ricordando i tempi di guerra pronuncia una battuta detta qualche mese fa da una delle ragazze dell’Olgettina: «La bellezza è un valore che si vende». I piani temporali si intrecciano, l’Italia corrotta ha sempre le stesse motivazioni, le stesse squallide parole. L’Italia “buona” si deve nascondere dai cattivi. Se ne La finestra di fronte a scappare dai nazisti erano gli ebrei, qui a cercare rifugio nello sgabuzzino di una vecchia casa è una compagnia di attori che collabora con la resistenza. E anche in questo film il protagonista è un omosessuale melanconicamente solo, fa il pasticcere, per ripiego però, perché in realtà vorrebbe essere attore, e sarebbe persino bravo se riuscisse a credere in se stesso. E c’è anche il legame con la Turchia, la terra di origine del regista. Ozpetek è in questo ultimo film più ozpetekiano che mai: non solo dice il già detto, ma ridice se stesso, la sua poetica. Ma allora cosa c’è di nuovo da vedere in questo film? C’è il riconoscersi in un sentire, portare alla luce emozioni che teniamo nascoste, c’è un parlare delle presenze dei trapassati con ironia e con dolcezza. E così quando il bravissimo Elio Germano che interpreta il ruolo del protagonista Pietro Ponte (pontifex in quanto comunica con i morti), si siede a tavola a giocare con le figurine della storia d’Italia insieme alla compagnia degli attori fantasmi, a noi ci sembra del tutto normale. Come sempre, la sera quando pensiamo ai nostri morti e ci pare di averli lì. Nessun oltre metafisico attende gli attori morti quando scoprono di essere morti, ma un breve viaggio sul tram 8, per tornare al teatro Argentina, luogo quanto mai misterico di Roma, perché si dice che lì sotto ci siano i resti della Curia dove fu ucciso Giulio Cesare. Il teatro come luogo della scena madre da cui tutto parte e tutto torna: la finzione è più vera della realtà? È una domanda che spesso sentiamo nel film, Ozpetek la lascia in sospeso e implicitamente rimanda ad altri, Pirandello in primis, che hanno affrontato la questione meglio di lui. È un film che gioca con le evocazioni, allude a più livelli di lettura. Di nuovo c’è che Ozpetek ha cambiato quartiere romano: dopo aver perlustrato ogni angolo di Ostiense nei precedenti film, ora è salito a Monteverde tra i villini liberty e le vecchie case popolari con giardinetto, dove abitò a lungo Pasolini. E in un gioco di rimandi e associazioni in cui paradossalmente ogni cosa ha una sua precisa assurda coerenza, Ozpetek ci mostra un inedito e plausibilissimo Monteverde almodovariano, con bariste vestite come Carmen Maura sull’orlo di una crisi di nervi, e notturni antri magici gestiti da trans. Ma quello è anche il luogo dove a Porta San Pancrazio combatterono i garibaldini per la conquista di Roma, per l’Italia unita. Poco più in là c’e il Gianicolo con i busti degli eroi del Risorgimento. Non è allora nemmeno un caso che sia propria una figurina di Garibaldi il regalo che le magnifiche presenze lasciano a Pietro, dopo aver abbandonato la casa.