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“L’Armata dei Sonnambuli” di Wu Ming

di Carlotta Colarieti / 18 luglio

Giunti al termine dell’ultima e 792esima pagina de L’Armata dei Sonnambuli (Einaudi Stile Libero, 2014) di Wu Ming, si avvertirà immediatamente l’esigenza compulsiva di chiudere il libro e, dopo essersi guardati un po’ intorno, effettivamente certi di essere soli, ricominciare daccapo. La prima idea sarà di ripercorrere la strada a ritroso, assicurandosi di aver raccolto tutto, di non aver perduto qualcosa durante il tragitto.

«Te lo si conta noi, com’è che andò. Noi che s’era in piazza della Rivoluzione».

Il collettivo bolognese, già dai tempi del Luther Blissett Project, ha fatto della coralità l’inconfondibile marchio di una narrativa politica e stratificata, ma nell’Armata, quel pluralismo riesce davvero a tratteggiare la voce comunitaria della folla, restituendo verità a tutti i personaggi, sanculotti, «muschiatini», controrivoluzionari o folli, in un ritratto chiassoso di quell’umanità che, nel XVIII secolo, dopo la presa della Bastiglia, divenne protagonista sovrana delle sorti di Francia.

«Non un fiato mentre la mano di Sanson smolla la fune e… Tump. Un bel suono secco, da far rinculare la testa nelle spalle, come si fosse tartarughi. È stato un attimo, poi un boato e un zullo di cappelli in aria, e soquanti l’han perso nella calca, ma chissene, quello era il giorno! Un miliziano della guardia nazionale ha tirato su la zucca di Luigi e ce l’ha fatta vedere che spioveva…»

Il re è morto: la dispotica testa è caduta portando con sé le regole dell’Ancien Régime, ma la fine della monarchia non rappresenta che l’inizio del nuovo ordine. E gli inizi, si sa, sono un momento delicato; quelli di un fenomeno che «arbalta il mondo intero», non possono che esserlo ancora di più. Parigi, l’epicentro delle rivolte, è tenuta sotto assedio dal disordine; gli amici del defunto Capeto vivono nascosti, ma stanarli non è impossibile, e allora nessuno è al sicuro: al terrore dei nostalgici si aggiunge quello della ghigliottina, per chiunque sembri rappresentare un nemico della Convenzione. E poi c’è la borghesia. Sbagliato. Nella Parigi di Wu Ming la borghesia non c’è – o meglio – c’è, ma è per lo più grassa e corrotta. Una borghesia buona esiste, ma sopravvive nell’onestà di pochi – il medico D’Amblanc per esempio. Nell’Armata, nel disordine politico, il vero modello dello spirito rivoluzionario è una popolana: Marie Noziere. I sentimenti di rivolta, giustizia e uguaglianza passano per il corpo di una donna, affiancata molto spesso da altre donne, protagoniste offuscate nella storia ufficiale. Qui, tra l’assalto a un forno per rivendicare il diritto al pane, il lavoro, le petizioni e un figlio a cui badare, la sarta del foborgo di Sant’Antonio finisce per assumere le sembianze immaginarie di una delle proprie matasse: è proprio da lei che partono i fili narrativi che legano l’imponente struttura analogica dell’Armata. Prova ardita, quella di attribuire tanta simbologia proprio a Marie. Molto spesso infatti, i personaggi femminili partoriti dalla mente degli uomini difettano di credibilità, rientrando inevitabilmente in quella comoda categorizzazione che vorrebbe divedere le donne in madri, vergini o puttane. Della rivoltosa, invece, stupisce la psicologia dignitosa e possibile, plasmata con grande attenzione da un collettivo tutto al maschile: commettendo errori e senza rimanere immune ai sentimenti dell’animo umano, alti o bassi che siano, Marie è viva, proprio come le donne vere. Così i Wu Ming scansano dal tavolo di lavoro Marat, Robespierre e Danton, al loro posto figurano i volti anonimi della folla indistinta, così che, finalmente, la storia della rivoluzione possa tornare al legittimo proprietario: il popolo.

«L’applauso del pubblico abboccò alla pausa dell’oratore. Una giovane merdegliosa si spellava le mani proprio ad una spanna dall’orecchio di Bastien. Il ragazzino la guardò, tutta brillocchi e merletti, e decise di non unirsi all’entusiasmo generale. Il discorso contro la tirannia e i dittatori gli era piaciuto, ma se piaceva pure a una così, allora doveva esserci qualcosa di storto».

E se, mentre la Francia dà spettacolo al mondo, Léo Modonnet, attore italiano allievo di Goldoni e celebre calcatore di palcoscenici, ha dovuto reinventarsi il mestiere, allora qualcosa è andato storto davvero. Perché ai tempi della Rivoluzione, il biglietto dello spettacolo non si paga più. L’arte del recitare ha abbandonato i teatri e si è trasferita nelle piazze, e dalle piazze fino alle tribune politiche, perché i «politici si alzano sui banchi per i loro discorsi come un attore calcherebbe le scene. Per loro il popolo è un pubblico, nient’altro».

Il racconto stesso accantona i capitoli per scandire il proprio tempo attraverso le scene e gli atti teatrali. Più che di romanzo storico, si tratta allora di una messa in scena della storia o comunque dell’esigenza di raccontare un passato lontano, ogni pagina più vicino che mai. È il principio dell’affabulazione, che, come affermano i Wu Ming stessi, «è obbligatoria com’è obbligatorio mangiare». E allora, spinti dall’euforia di una lettura avvolgente che non tradisce le aspettative, come non essere tentati di scorgere nel mesmerismo, teoria illuministica di fluidi magnetici e sonnambulismo, una protesta silenziosa nei confronti di quei poteri ciarlatani, che, con chiacchiere imbroglione, riescono a indurre il sonno nelle coscienze dei cittadini? La voce viva di una storia tanto pulsante non poteva poi che ricorrere ai dialetti, quelli antichi emiliani, degni ambasciatori dello spirito genuino della rivolta. Per queste vie e molti altri sentieri, passa la voglia di Wu Ming di riscrivere la storia ufficiale, che vorrebbe la rivoluzione francese atto coscienzioso di pochi illuminati su una massa pronta a essere manovrata. Sorpassando le potenzialità del What if, per abbracciare quelle del What else, con L’Armata dei Sonnambuli i Wu Ming abbandonano gli sfizi puramente autoriali, sacrificandoli al lettore, alla sua capacità di orientarsi in un impianto narrativo complesso, megalitico ma stupendamente leggero.

La prima idea, dunque, sarà di ripercorrere la strada a ritroso, assicurandosi di aver raccolto tutto, di non aver perduto qualcosa durante il tragitto. La seconda, più saggia e riflettuta, sarà di adunare le interferenze e le analogie indotte dalla lettura e usarle nel modo più opportuno, come un invito a generare idee nuove e coscienza intellettuale.

(Wu Ming, L’Armata dei Sonnambuli, Einaudi Stile Libero, 2014, pp. 808, euro 21)