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Cinema

“La grande scommessa”
di Adam McKay

La crisi dei mutui sub-prime raccontata in un modo del tutto nuovo

di Francesco Vannutelli / 12 gennaio

La crisi dei mutui sub-prime, il crollo di Lehmann Brothers, il tracollo della finanza statunitense che si diffonde come un virus al mondo intero. A Hollywood è arrivato il momento di fare i conti con la storia recente, di raccontare la storia vera di chi aveva capito cosa stava succedendo e di come tutto il sistema ne fosse consapevole e non abbia fatto niente per impedirlo. La grande scommessa di Adam McKay mette insieme un cast di grandi nomi per raccontare l’inizio della crisi e spiegare allo spettatore quel linguaggio misterioso e inaccessibile che è la finanza.

Nel 2005 il mercato immobiliare degli Stati Uniti sembrava incrollabile. Chiunque poteva accendere un mutuo per comprarsi una casa, anche più di uno, anche per più case. Era impensabile per chiunque immaginare una sua flessione. Per chiunque ma non per Michael Burry, broker scrupoloso e attento a ogni minimo dettaglio che analizzando i numeri dietro a quella enorme mole di mutui che continuavano a venire concessi scopre una solidità solo di facciata che nasconde il vuoto di un enorme scoperto di cifre che non possono e non avrebbero mai potuto essere restituite. Burry è un agente finanziario e fa quello che deve: sviluppa un sistema per scommettere contro l’andamento del mercato immobiliare, sul suo fallimento in sostanza, investendo i soldi del fondo fiduciario che amministra. Sono in molti a ridergli dietro, pochi a capire che nelle sue previsioni c’è la verità, quella verità che ha portato tra il 2007 e il 2008 alla crisi economica globale più grande della storia dell’umanità.

È arrivato il momento della riscossa del cinema demenziale. Prima era Judd Apatow e la sua capacità di trasformare in denaro qualsiasi prodotto cinematografico, adesso è arrivato il momento di Adam McKay, regista di fiducia di Will Ferrell nella sua forma più cretina (i due Anchor ManPoliziotti di riservaFratellastri a 40 anni), che dopo aver riscritto Ant-Man per la Marvel ha deciso di mettersi dietro la macchina presa per il suo film più ambizioso, quello in grado di allontanarlo dalla commedia più becera (ma comunque dotata di una certa intelligenza registica di fondo) per avvicinarlo a un cinema di più alta aspirazione. La grande scommessa, tratto dal libro omonimo di Michael Lewis pubblicato in Italia di Rizzoli, è il tentativo molto più che riuscito di raccontare il passato recente e le sue conseguenze sul contemporaneo in un forma assolutamente nuova, capace di unire generi in un linguaggio che non è facile decodificare.

C’è un po’ di The Wolf of Wall Street e non può essere altrimenti, parlando di investimenti e borsa, con un avvio che ne sembra quasi un calco nello stile. C’è anche, però, la capacità di McKay di far fruttare l’esperienza di anni di cinema tutto al maschile per delineare dei personaggi complessi con pochi tocchi dati al momento giusto. Se nella forma La grande scommessa sembra essere vicino a Scorsese, nei contenuti vengono subito in mente film recenti dedicati alla stessa crisi dei mutui come il documentario Inside Job, premiato con l’Oscar per il miglior documentario, e Margin Call di J.C. Chandor. A differenza di entrambi, però, McKay riesce a parlare della crisi e di alta finanza con un linguaggio innovativo. Il narratore Ryan Gosling (è Gregg Lippmannn, un trader di Deutsche Bank che fiuta l’affare nell’intuizione di Michael Burry) sfonda da subito la quarta parete rivolgendosi agli spettatori. Anche gli altri personaggi lo fanno, addirittura spiegando come il film si allontani dalla storia vera a cui è ispirato e soprattutto chiamando in causa delle guest-star nei panni di loro stesse per spiegare i concetti più complessi del sistema degli investimenti. Allora c’è Margot Robbie in una vasca da bagno che spiega cosa sia un pacchetto CDO, o Selena Gomez che illustra le strategie del brokeraggio al tavolo di Las Vegas.

La velocità nevrotica di un film di borsa, quindi, si unisce alla volontà di spiegare finalmente a chi vede cosa sia successo con un linguaggio che cerca di essere il più possibile semplice. La grande scommessa ha tutte le carte in regola per essere un grande film. Trova un limite in se stesso, quando si obbliga a ricordare i danni e le perdite che la crisi ha portato mentre gli speculatori esultano per i ricavi enormi che hanno ottenuto scommettendo sulla fine di tutto, ma è un peccato di poco conto. I vari protagonisti, abbondantemente ed evidentemente truccati, fanno a gara di bravura. Ryan Gosling è cinico e distaccato, Brad Pitt si prende un ruolo di guru paranoico, ci sono i meno noti ma non per questo meno bravi Hamish Linklater, John Magaro (anche in Carol), Rafe Spall e Jeremy Strong. Soprattutto, ci sono Steve Carell e Christian Bale, perfetti nei ruoli più dettagliati e fragili del film, Carell che ha subito le conseguenze del mercato azionario sulla sua vita e cerca di espiare un dolore che è anche colpa (secondo lui), Bale quindici anni dopo American Psycho disegna un nuovo animale da borsa totalmente diverso da Patrick Bateman.

(La grande scommessa, di Adam McKay, 2015, drammatico, 130’)

LA CRITICA - VOTO 7,5/10

Uno dei film più interessanti (e accessibili) sulla crisi economica mondiale e sulla sua origine arriva da Adam McKay, regista di commedie demenziali che trova un linguaggio nuovo per parlare di finanza senza rinunciare all’intrattenimento potendo contare su un cast di grandi nomi in in grande forma.