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Cinema

“È solo la fine del mondo”
di Xavier Dolan

L’esame di maturità di un regista di culto

di Francesco Vannutelli / 2 dicembre

Si può diventare un regista di culto a soli 27 anni? Xavier Dolan è uno degli autori più giovani su cui si sia soffermata l’attenzione della critica internazionale nella storia del cinema. Dall’esordio nel 2009 a oggi, film dopo film – sono sei in tutto – ha continuato a far parlare di sé, a portare i suoi film nei festival, a vincere premi. Lo scorso maggio era attesissimo a Cannes con È solo la fine del mondo, il primo in età adulta, come lo ha definito lui stesso. E ha vinto il Grand Prix della giuria.

Dopo la definitiva consacrazione con Mommy (gran premio della giuria a Cannes nel 2014) e la consacrazione a icona pop con la regia del videoclip “Hello” di Adele, con quasi due miliardi di visualizzazioni su Youtube, i distributori italiani sono corsi ai ripari recuperando nell’arco della passata estate tutti i titoli della filmografia di Dolan. Ci sono state retrospettive nei festival estivi, uscite in dvd, tutto per preparare il pubblico all’arrivo in sala di È solo la fine del mondo.

Louis è uno scrittore di trentaquattro anni che manca da casa da dodici, dopo essere andato via senza spiegare nulla a nessuno. Un giorno decide di tornare dalla sua famiglia per annunciare la sua prossima morte. Ad aspettarlo ci sono sua madre, la sorella minore Suzanne, che non vede da quando era ancora una bambina, il fratello maggiore Antoine e sua moglie Catherine. Tornare nella casa di famiglia, anche se non è la stessa di dove è cresciuto, proietterà subito Louis nelle spirali di amore divorante che avevano segnato la sua crescita fino a spingerlo verso la fuga. Con l’aggiunta di un rancore nuovo per una sparizione di cui nessuno ha mai discusso.

Doveva essere il film della maturità, è sicuramente un film diverso all’interno della produzione di Dolan. Un film minore, sia per la durata che per la riuscita. Per la prima volta, il regista canadese è partito da un testo non suo. La scoperta della pièce teatrale omonima di Jean Luc Lagarce è avvenuta grazie a Anne Dorval, una delle attrici preferite di Dolan. Dopo aver lasciato maturare il testo per qualche anno, si è sentito pronto ad affrontarlo, a renderlo suo, al termine delle riprese di Mommy.

Il – già – lungo percorso del cinema di Dolan prosegue nell’esplorazione delle dinamiche familiari e dei rapporti fondamentali che costituiscono l’essenza degli individui. Da J’ai tué ma mère in poi, i suoi film sono sempre stati concentrati sul segno degli amori primordiali, sul legame incatenante con le radici. Con È solo la fine del mondo porta in scena un dramma da camera fatto di tensione emotiva sempre pronta a esplodere.

Come si capisce già dalla canzone che accompagna i titoli di testa, la casa non è un posto sicuro, è il posto dove tutto fa più male. È dove tutti sono prigionieri, anche a chilometri di distanza. In Mommy, Dolan aveva esaltato il senso di isolamento dei suoi personaggi rinchiudendoli nel formato di ripresa 1:1 (un quadrato al centro dello schermo). I protagonisti di È solo la fine del mondo hanno la libertà dell’ambiente intorno a loro, ma non sanno che farsene, rimangono chiusi in loro stessi, nei loro pensieri, nelle loro paure, con la telecamera che li rinchiude senza mai farli respirare in campo lungo. Solo nei flashback c’è una traccia di libertà.

Il segreto di Louis e del suo ritorno obbliga la giornata sui binari di una felicità forzata e isterica. Bisogna godere del tempo insieme senza fare domande. Eppure è chiaro che non può essere così, che il non detto pesa troppo, che il segno del tempo è lì a condizionare tutto. La madre, che vuole apparire bella per il figliol prodigo, la sorella piccola, che non lo ha mai conosciuto e sogna una libertà e un coraggio simili al suo, il fratello maggiore, sempre di spalle e pieno di rancore che non sa come gestire per quell’abbandono. Solo Catherine, che è estranea quanto è diventato Louis, vede la famiglia per quello che è, capisce i segreti senza il bisogno che vengano detti.

Affidandosi per la prima volta a un cast di fama internazionale, con Gaspard Ulliel, Marion Cotillard, Léa Seydoux, Nathalie Baye e uno straordinario Vincent Cassel, Dolan continua a puntare sulla visceralità della recitazione per trasmettere tutta l’umanità dei suoi personaggi. C’è un momento di un’intensità rara quando i due fratelli si scambiano l’unico sorriso e parte un flashback vago sulla loro infanzia insieme, ma i meccanismi di contaminazione tra melodramma ed estetica pop funzionano meno in È solo la fine del mondo rispetto a quanto visto nei film precedenti di Dolan.

Siamo di fronte, comunque, a un film che conferma tutto il talento dell’enfant prodige canadese, ed è lecito chiedersi quali margini di crescita ulteriore ha questo regista prossimo al primo film in lingua inglese (The Death and Life of John F. Donovan, con Kit Harrington, Natalie Portman e Jessica Chastain). Forse, però, l’impianto teatrale e la breve durata (un’ora e mezzo) limitano la portata di un dramma che avrebbe avuto bisogno di maggiore spazio per respirare, di uscire dalla casa di famiglia di più, di aprirsi per far capire meglio il senso della chiusura e dell’incomunicabile.

(È solo la fine del mondo, di Xavier Dolan, 2016, drammatico, 95’)

LA CRITICA - VOTO 7/10

Xavier Dolan chiama se stesso alla prova di maturità con È solo la fine del mondo. Per la prima volta, parte da un testo non suo, per la prima volta, si affida a un cast di stelle internazionali. C’è molta intensità e una grandissima recitazione, è innegabile, ma qualcosa non funziona.