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Intervista a Sara Antonelli, traduttrice di “Diario di lavorazione” di Sam Shepard

di Dario De Cristofaro / 2 dicembre

È più o meno la fine di febbraio quando con l’editore di Playground, Andrea Bergamini, parliamo di un libro, a suo dire, straordinario che di lì a poco uscirà in libreria. Il libro in questione è Diario di lavorazione di Sam Shepard (Playground, 2016), pubblicato negli Stati Uniti nel 2010. Dopo qualche giorno ho il libro fra le mani, lo strillo in copertina tratto da The New York Times parla chiaro: «Shepard scava negli strati della nostra storia per giungere alle radici del mito americano… Le parole di Shepard hanno un’integrità granitica, rocciosa».
Bergamini mi propone di intervistare Sara Antonelli, la traduttrice. L’idea mi piace – ho già intravisto Sara a fianco di Jhumpa Lahiri, qualche anno prima – e accetto. Leggo Diario di lavorazione, lo trovo straordinario per originalità e atmosfere, per l’assenza totale di mitizzazioni patriottiche e per lo scavo profonda che Shepard conduce nella quotidianità, in viaggio per gli Stati Uniti.
Purtroppo però, come accade spesso, il tempo scivola via. E ogni volta che mi trovo davanti il libro di Shepard, penso di avere perso l’attimo. Fino allo scorso ottobre, quando per vari motivi, due su tutti la lettura di Absolutely Nothing di Giorgio Vasta e la rilettura di Spazi Uniti d’America di Matteo Meschiari, entrambi pubblicati da Quodlibet, mi decido a contattare Sara Antonelli per proporle l’intervista.
Sara mi risponde entusiasta, ci incontriamo qualche giorno dopo all’Università di Roma Tre, dove insegna Lingue e letterature angloamericane. Mi racconta di Bob Dylan, della giornata di interventi che sta organizzando [che si è poi svolta lo scorso 30 novembre, ndr] per discutere dell’assegnazione del premio Nobel, a cui lui ha risposto in modo distaccato. Decido di far partire l’intervista proprio da Dylan.

 

Raccontaci del rapporto tra Shepard e Dylan. Come nasce e come si evolve?

Shepard e Dylan si incontrano nel 1976 in occasione di una tournée di Dylan in New England, il cosiddetto Rolling Thunder Tour. La scusa è il desiderio di Dylan di fare un film sul tour, una sorta di diario di viaggio e, siccome lui è Dylan, fa chiamare Shepard e gli assegna il lavoro senza mai averci parlato. Non sceglie certo a caso, perché Shepard all’epoca è il drammaturgo e sceneggiatore più cool del momento – aveva già lavorato con Antonioni ed era un nome noto e apprezzato nel teatro sperimentale, portando sul palcoscenico il personaggio del musicista e della rockstar. Shepard viene nominato sceneggiatore di Dylan, insomma, e ovviamente accetta perché come fai a dire no a Dylan? Da questo incontro tra sceneggiatore e musicista-regista-primo attore non originerà, tuttavia, alcuna sceneggiatura, bensì un diario, il diario di viaggio di Shepard, il diario della sua frustrazione, del suo fallimento: The Rolling Thunder Logbook. Il libro è composto di vignette, di versi liberi, di brani dialogati destinati a offrirci l’effetto di Dylan, e poi di brani introspettivi in cui l’autore, Shepard, ragiona sul ruolo sciamanico della rockstar e soprattutto su quanto sia impossibile scrivere su un artista maestoso e sfuggente come Dylan. O almeno impossibile per lui, Shepard, il quale fin dall’inizio si sente inadatto al ruolo di agiografo tanto quanto alla vita di gruppo “on the road”, che gli appare falsa – i musicisti gli appaiono bambini viziati – ridicolmente ritualistica e ripetitiva tanto quanto quella delle persone che vanno ogni giorno in fabbrica. Di rilevante c’è che nonostante ciò, nonostante Shepard abbandoni il tour a metà perché seccato e annoiato da tutto, perché gli manca la famiglia e la possibilità di andare a prendere un caffè da solo senza avere sempre tra i piedi musicisti vestiti da matti, il rispetto e l’affetto per Dylan restano intatti. In un certo senso Shepard è come atterrito da Dylan. Lo osserva toccare alcuni luoghi significativi della cultura statunitense – Plymouth Rock e Lowell, per esempio – oppure la ricostruzione di un villaggio dei pellegrini, un’attrazione per turisti, e gli pare che Dylan percorra quei luoghi perché desidera colonizzare tutto, che si impossessi di tutto il territorio, di tutto l’immaginario statunitense. Da una parte Dylan gli appare autoritario e arrogante, dall’altra – ed è questa la cosa che a me colpisce sempre di Dylan – il suo autoritarismo si trasforma sempre in autorevolezza. In seguito a questa tournée i due diventeranno grandi amici e, per esempio, scriveranno insieme una bella canzone, “Brownsville Girl”, che Dylan ha incluso in Knocked Out Loaded.

 

Venendo invece a Diario di lavorazione, cosa puoi dirci del titolo?

Diario di lavorazione è la traduzione letterale della locuzione Day out of Days, un documento in cui vengono annotati gli attori, il cast di un film, e i giorni in cui ciascun attore sarà impegnato con le riprese di un film, i giorni di riposo, quelli in cui deve arrivare sul set, quelli in cui potrà lasciare il set. Nel diario di lavorazione, puoi notare come un attore presente tutti i giorni di una settimana, a un certo punto scompaia per poi apparire dieci giorni dopo, magari per un giorno solo. È un documento idiosincratico, capriccioso, ma è anche il documento dal quale puoi fare un preventivo delle spese, dei cachet. Puoi anche capire chi è il protagonista e chi no. Mi pare una locuzione perfetta per illustrare un libro fatto di personaggi diversi che a volte tornano e a volte scompaiono dopo soltanto una breve apparizione. Ma la metafora dell’attore funziona anche perché leggendo l’io è talmente prepotente da suggerire che al centro di ogni racconto, di ogni interpretazione dell’io, ci sia sempre Shepard.

 

Che immagine di Shepard viene fuori da questo libro?

La devi ricostruire da te, dai frammenti, dai vari “attori” e “personaggi” che incontri leggendo. La mia immagine, per esempio, è quella di un settantenne che ha così tanti tratti in comune con l’autore, Sam Shepard, da essere sospetta. In queste pagine ritrovo lo Shepard scontroso, solitario e introvabile, che prende la macchina e gira gli Stati Uniti senza una direzione precisa, ma senza compiacimento, senza illudersi di viaggiare in uno spazio mitico, il mito Shepard lo odia; nella mia immagine rivedo lo Shepard che per tanti anni ha vissuto a Charlottesville, in Virginia, allevando cavalli; quello che ha sempre evitato qualunque esposizione e che, nonostante ciò, è una di quelle facce che ti raccontano meglio di certi anni degli Stati Uniti. Trovo che Shepard sia un uomo rappresentativo degli Stati Uniti, anche per un’asprezza che non ha niente di costruito. Esiste un documentario uscito qualche anno fa, un buon documentario HBO, che si intitola Shepard and Dark e che parte dall’idea di Shepard di raccogliere in un libro la lunga corrispondenza fra lui e Johnny Dark, il suo migliore amico, nonché il compagno della madre di O-Lan Jones, la sua prima moglie, la donna che lasciò per Jessica Lange. Con Johnny Dark, a metà degli Settanta, Shepard ha comprato un ranch in California per poter allevare cavalli e vivere insieme, con le rispettive compagne. Shepard and Dark racconta un’autentica amicizia maschile; non ha nulla di obbligato, nulla di interessante in sé, se non il fatto di essere un’amicizia profonda che ha resistito ai traumi, alle separazioni, alle distanze geografiche. È un’amicizia che si è snocciolata per lettera, tra un allevatore-scrittore e un camionista. Con Dark, Shepard si confronta su tutto, prova i dialoghi delle sue commedie, parla di filosofia e di amore, di figli, di cavalli. C’è un maschile vulnerabile in Shepard and Dark, che viene fuori anche in Diario di Lavorazione. Un maschile che è evidente, per esempio, nel racconto “Indianapolis (Highway 74)” che inizia, tra l’altro, con: «Ho ripreso a vagare per il paese, senza un vero motivo», uno dei fili conduttori del libro.

 

E gli Stati Uniti che racconta?

La cosa interessante di Diario di lavorazione è che Shepard racconta sempre la realtà del territorio così com’è, nella sua quotidianità, evitando una deriva di superficialità e di oleografismo. E ovviamente, se lo leggiamo davvero, se lo leggiamo, cioè resistendo alla tentazione di imporre alle sue parole le nostre immagini e aspettative televisive, scopriamo anche noi che non c’è niente di fintamente straordinario nei territori americani che attraversa. In questi luoghi la gente è morta, si è scuoiata, si è presa a cannonate, ma è anche vissuta tranquillamente, un posto bello e pacioso, se hai una veranda sulla quale sederti la sera a osservarlo. Gli Usa, insomma, emergono come un posto come tutti gli altri. Un posto anche violento, ma non al modo mitizzato dei cowboy e degli indiani. Un posto in cui la gente è stata costretta a fuggire, che è stata perseguitata, è stata cancellata, ma dove la gente si innamora, si rallegra perché ha comprato un bel cavallo, litiga con la moglie ecc. Noi, in Europa, siamo forse diversi? Shepard è davvero un buon antidoto ai facili miti di massa che coltiviamo qui in Italia. Sembra dirci, a noi europei, voi non sapete niente di cosa sia veramente questo territorio e io stesso ho appena iniziato a scoprirlo. Uno dei miei passi preferiti, nel precedente Motel Chronicles, è un ricordo infantile di Shepard, di quando, in macchina con i genitori attraversa il deserto passando sotto le gambe di un dinosauro di plastica, una specie di attrazione turistica, plastica pura. Ovviamente lo Shepard bambino si stupisce come dinanzi a una favola. Ma è un bambino. L’adulto non ci crede. Non può crederci. Gli Stati Uniti, insomma, sono un territorio che porta i segni della storia e anche della plastificazione della storia. Sono un territorio antico tanto quanto quello europeo e la sua antichità è nascosta, come da noi. In superficie ci sono le lucette, una specie di albero di natale sempre acceso, per bambini di tutte le età. È un bel bagno di realtà rispetto ai miti occidentali.

 

«Il comportamento dei bianchi mi strazia il cuore» dice Kit Carson nella citazione che Shepard fa in chiusura del racconto “Fort Robinson, Nebraska (Highway 20)”, dedicato al luogo dell’uccisione di Cavallo Pazzo. Proprio in quel racconto Shepard dice, in riferimento a un sasso raccolto sul posto: «I cattolici lo definirebbero una “reliquia di seconda classe” perché non ci sono prove della sua origine, ma solo un legame con il luogo». Che appare emblematico rispetto al tuo discorso.

Infatti, non c’è niente di eccezionale. Shepard resiste ai facili miti di massa e fa di tutto per scarnificare l’orizzonte e arrivare quanto più vicino possibile a qualcosa di vero, che sia vero per lui. Il vero, per lui, è sempre incastonato nella natura, in quelle chiazze di natura, di “outdoor” ancora disponibili in cui, però, attenzione egli non si immerge da conquistatore hemingwayano. Lo spazio americano, infatti, quando ti ci immergi, ti mangia. Almeno in Shepard. Nei suoi paesaggi non c’è esaltazione, né senso di possesso, ma pioggia, neve, grandine, un caldo tremendo, strade dove non trovi il benzinaio. E non c’è niente di avventuroso, alla “on the road”, per intenderci, in tutto questo. Come in qualunque altro posto del mondo, se hai una buona macchina, se non sei inseguito dai cani dell’inferno, se hai una compagna e dei figli che ti aspettano a casa, il viaggio è una bellezza. Se viaggi perché hai mandato all’aria tutto, perché non sai più dove sta casa tua, viaggiare è davvero brutto.
In Europa e ancor di più in Italia abbiamo adeguato la nostra immaginazione all’idea più banale di Stati Uniti. In Diario di lavorazione, per esempio, a Shepard capita di inquadrare le riserve indiane in cui i nativi si fanno di metanfetamina, e quel che vede non è per nulla avvincente. Non sono avvincenti neppure le case trasformate in laboratori dove fabbricare le anfetamine, case che da un momento all’altro possono esplodere ammazzando gli occupanti e i loro ignari vicini. I villaggi sperduti nelle montagne o nel deserto dove si fanno le metanfetamine sono luoghi popolati di zombi. Insomma, non è Breaking Bad. Intendiamoci, io penso che quella serie sia fantastica e geniale, la insegno, e i miei studenti ci scrivono le tesi. Ma se pensassimo che Breaking Bad rappresenti la realtà o che House of Cards possa farci capire chi siano i Clinton siamo fuori strada. Per tornare alla tua domanda: la frase di Carson è lampante.
Fammi aggiungere un’ultima cosa sul paesaggio naturale americano. A molti statunitensi piace immergersi di tanto in tanto nella natura meravigliosa del loro paese. Raggiungono i parchi in macchina con i figli, dormono in tenda o nei bungalow, avvistano gli alci e gli orsi, ammirano il Gran Canyon ecc. Se da un lato si tratta di un viaggio di conoscenza, di una riappropriazione del territorio, dall’altro questi bagni di natura, almeno a livello simbolico, sono anche un rito di passaggio che ha avuto e in alcuni ha ancora una funzione rigenerante. Esco dalla civiltà e ritorno “vero”. Pensa a De Niro in Taxi Driver. Prima di perdere la testa si rasa i capelli lasciandosi la cresta. Insomma, quando uno fa il giustiziere o impazzisce, cosa diventa? Indiano. La storia, la letteratura e il cinema americani pullulano di storie simili. Pensa a un film come Il patriota. O ai ribelli del Boston Tea Party. Erano patrioti che prima di agire si travestono da cosa? Da indiani. La violenza – insomma – è americana, nel senso che è nativa e selvaggia, è mia ma anche “altra”, perché appartiene all’indiano, a quel tratto selvatico i cui connotati sono quelli degli indiani.

 

Come dicevamo prima, uno dei due fili conduttori di Diario di lavorazione è questa necessità del protagonista di prendere la macchina, a un certo punto, e mettersi in viaggio senza una meta.

Attenzione, anche qui non si tratta del solito mito della Route 66 o dell’On the road di Kerouac. Shepard non lo fa perché è eccitante, ma perché non riesce a stare fermo. Ogni volta che si mette in viaggio lo fa per esorcizzare la maledizione del padre: uno scocciato reduce di guerra infettato dalla febbre del viaggio. Non stava mai a casa, tradiva la moglie, era violento con il figlio: ha distrutto la famiglia, ha distrutto tutto. Suo padre, evidentemente, è stato vittima di uno stress post-traumatico. Ma Shepard? Lui no, ma teme che il virus paterno sia entrato anche nel suo corpo. Quando ci racconta i suoi viaggi insulsi e senza meta è continuamente accompagnato dall’idea di fare qualcosa di male, perché non si devono abbandonare le persone care, come ha fatto suo padre. Perché poi si finisce per andare in pezzi. Dimenticavo di dire una cosa importante: Sam Shepard e suo padre hanno lo stesso nome. Sam Shepard teme di essere un doppio del padre. Da questo punto di vista Diario di lavorazione mi appare come un libro che racconta la ricerca di punti fermi: mentre traducevo, avevo la sensazione che quest’uomo alla deriva, che teme di essere una copia del padre, avesse bisogno di certezze per non andare in pezzi. Un po’ come accade anche nel suo teatro: i personaggi di Shepard hanno sempre paura che gli crolli il mondo addosso, di andare fuori di testa.

 

Ed è così che incontriamo l’altro elemento ricorrente del libro: il distaccamento della testa.

A me l’immagine della testa piace tanto, un po’ perché mi ricorda i classici della letteratura americana e in particolare The Legend of Sleepy Hollow e Rip Van Winkle, due racconti di Washington Irving sul contrasto tra Europa e America e sulla rivoluzione americana. Alessandro Portelli esamina la metafora al centro di questi due racconti – delle teste mozzate – in Il re nascosto oppure in Il testo e la voce. La esamina e la segue fino ad arrivare ad Amatissima di Toni Morrison. Staccare la testa – ragiona Portelli — significa togliere autorità ma anche togliere la voce. Nei suoi libri nota che nella letteratura americana di teste mozze ce ne sono molte, soprattutto nell’immaginario settecentesco, il secolo di una rivoluzione, quella americana, senza decapitazione. In queste teste mozze c’è, di nuovo, il fantasma dell’Europa. È un fantasma politico e culturale, che gli scrittori si portano con sé e da cui si devono separare. Credo che anche Shepard rientri in questa tradizione individuata da Portelli. Aggiungo, però, che in Shepard la testa mozza che va per conto suo è anche il segno della frantumazione dell’io. In Diario di lavorazione l’io narrante, che il più delle volte appare come un unico io, teme sempre di andare a pezzi. C’è un racconto in cui questo mi appare particolarmente evidente: quello in cui un vecchio si osserva minuziosamente allo specchio e non si riconosce più. Da questo punto di vista il distacco della testa è quasi un esorcismo: mi appare il segno della paura di non sapere più chi si è, vuoi per la vecchiaia, vuoi per la malattia, vuoi perché adesso non hai più accanto la stessa donna con cui hai passato tanti anni… I racconti della testa mozza, che dal punto di vista narrativo sono anche i più succosi, sono insomma quelli che permettono a Shepard di esorcizzare la paura di perdere il cervello, di diventare lento, vecchio, incosciente. Il tema della testa mozza lo leggerei, insomma, in modo duplice: da una parte la tradizione della letteratura americana a cui fa riferimento Portelli, che ogni scrittore rielabora poi a modo suo; dall’altra l’elemento della vecchia e della paura di non riconoscersi più, dell’andare in pezzi.

 

Come nasce Diario di lavorazione? Raccolta di pezzi sparsi o progetto unitario?

Fatta eccezione per uno o due racconti, per esempio quello sulla vacanza in Messico, che è uscito su The New Yorker, gli altri testi sono stati scritti per fare parte di un libro unico. Quindi possiamo parlare assolutamente di progetto unitario. Shepard è noto soprattutto come commediografo, ma la prosa fa da sempre parte della sua vita. Fino a ora ha scritto solo racconti, ma la casa editrice Knopf ha annunciato l’uscita, nel febbraio del 2017, del suo primo romanzo.

 

Da traduttrice, che cosa puoi dirci della lingua e dello stile di Shepard?

Che sono sempre stata consapevole di avere davanti un autore che scrive per il teatro. Ha un ritmo pazzesco. Con Bergamini abbiamo fatto di tutto per mantenere la punteggiatura, così come le frasi brevi dell’originale, che però non sono le tipiche frasi brevi, a tensione epigrammatica, quelle che sembrano prometterti chissà quale rivelazione folgorante sul senso della vita, quelle che si rifanno goffamente a Hemingway e a Carver, di certa letteratura americana, bensì di periodi semplicemente più vicini al parlato. Per esempio la primissima storia, “La cucina”, dal punto di vista di chi traduce è piena di trabocchetti linguistico-sintattici: perché tutto è calibrato rispetto a dove il lettore pone l’accento leggendo ad alta voce. È un racconto molto conciso e sofisticato. Dare il senso a quel poco che l’autore dice e renderlo in italiano ha richiesto un certo impegno, come sempre quando si traduce. In Diario di lavorazione Shepard non utilizza uno slang, la sua è una lingua pulita; c’erano solo, ogni tanto, delle forme un po’ desuete del parlato quotidiano degli anni Cinquanta. Per dire, a volte sembra che Shepard parli come uno zio degli anni Cinquanta: nessuno userebbe più quelle espressioni ma ne intendiamo benissimo il significato. Ecco, quella di Shepard la definirei una lingua fonica e visiva: le cose che ti racconta puoi riuscire a sentirle e a vederle.

 

Come viene percepito Shepard negli Stati Uniti?

Il lettore statunitense percepisce Shepard come un drammaturgo imprescindibile e come una celebrità, in particolare dopo il 2010, l’anno della sua rinascita, secondo The New York Times. La celebrità come attore hollywoodiano in parte lo ha danneggiato, lo fa apparire “leggero”. Forse è anche per questo che non ama i riflettori né dare interviste; e che la sua carriera di narratore è meno nota. Certo, attore, drammaturgo, regista e narratore: Shepard ha così tante facce che non stupisce che abbia paura che la testa gli salti in aria una volta o l’altra.

 

Credo sia giusto concludere lintervista con una domanda sulla vittoria di Trump alle recenti elezioni americane che è stata una sorpresa per molti. Tu che opinione ti sei fatta?

Difficile sintetizzare. Ma la cosa che mi ha stupito, il giorno stesso delle elezioni, è aver letto su The New York Times una serie di interviste ad alcuni studenti afroamericani, i quali dicevano di non vedere in maniera così drammatica l’eventuale vittoria di Trump, perché per loro rappresentava uno dei tanti politicanti razzisti di sempre, forse nemmeno il peggiore. A distanza di giorni quel che appare sempre più chiaro è che questi stessi ragazzi non hanno votato per Clinton, che alla candidata democratica siano mancati i voti degli elettori di età compresa tra i 18 e i 29 anni, sia neri sia bianchi. E che il numero dei votanti democratici è diminuito. È una sconfitta di tutto il Partito Democratico, è evidente. Detto questo, la vittoria di Trump testimonia l’ottimo lavoro sul territorio dei repubblicani. Si sono impegnati a vincere dal giorno dopo in cui Obama è diventato presidente. Hanno approfittato di tutto, delle organizzazioni locali, delle chiese, delle leggi statali, delle sentenze della Corte suprema, sono stati determinati e, costanti, soprattutto nelle zone della cosiddetta Rust belt, zone che i democratici hanno invece abbandonato, dandole per scontate. Mentre Obama partecipava alla compagna di Clinton andando a parlare all’università del Michigan, Trump faceva campagna elettorale nelle fabbriche del Michigan. Durante l’ultima settimana di campagna è stato lì di continuo, in Michigan, in Winsconsin, in Pennsylvania, stati operai con una base democratica. Mentre i democratici chiudevano la campagna elettorale a Philadelphia insieme a Bruce Springsteen, il cantante che celebra la classe operaia statunitense, la classe operaia, quella vera, si apprestava a votare repubblicano.
Di questa elezione mi spaventano diverse cose. La prima è la cacciata dei clandestini e ancor più dei loro figli, ovvero: ragazzi e ragazze americani che non hanno alcun legame con il Messico o con il Senegal; ragazzi e ragazze che quei paesi forse non li hanno neppure mai visti perché sono sempre stati negli Usa, perché sono andati a scuola negli Usa. Che gli accadrà? La seconda cosa che mi spaventa è il monocolore. Il presidente, il congresso e tra poco la Corte suprema saranno tutti repubblicani. Persino i governatori sono in larga parte repubblicani. Che garanzie democratiche può offrire e tutto questo il sistema di checks and balances su cui si fonda la democrazia americana? Credo che quando Trump afferma di aver vinto anche il voto popolare – e ovviamente questa sua affermazione non è sostenuta da alcun dato numerico – stia dicendo «faremo di tutto e tutto quello vogliamo, e lo faremo con sicurezza sia perché abbiamo i numeri sia perché la maggioranza dell’America è con me». Certo, visto il personaggio, e se dobbiamo credere a quel che abbiamo visto, Trump potrebbe rivelarsi una mina vagante per gli stessi repubblicani: non dimentichiamoci che si tratta di un newyorchese, vissuto nel mondo dello spettacolo, distante dai valori dei repubblicani. Secondo me gli americani rimpiangeranno a lungo Obama, anche se ancora non lo sanno.

 

(Sam Shepard, Diario di lavorazione, trad. di Sara Antonelli, Playground, 2016, pp. 304, euro 18)