Flanerí

Libri

“Istanbul Istanbul”
di Burham Sönmez

L’immagine di Istanbul e il suo riflesso

di Virginia Giustetto / 9 dicembre

Prima di essere una storia Istanbul Istanbul di Burham Sönmez (Nottetempo, 2016) è un atto d’amore verso una città. Questa è una premessa doverosa, perché colloca il libro dentro una dimensione precisa e imprime alle pagine un colore particolare. Allo stesso tempo è un atto di dolore compiuto a distanza, da una prospettiva spaziale (l’autore vive per lunga parte dell’anno a Cambridge) e temporale, poiché si parla di una città che non c’è più e in cui tuttavia balugina ancora qualcosa.

La cornice narrativa è semplice: quattro uomini si trovano rinchiusi nella stessa cella sotterranea; non si conoscono, ma sono tutti incarcerati per essersi opposti al governo. Il più giovane, Demirtay, è uno studente, poi c’è il Dottore, che di Demirtay potrebbe essere il padre, Küheylan, il vecchio dalla barba lunga, e Kamo il barbiere, la cui età sembra oscillare tra quella dei primi due. In questo modo sottoterra è ricomposta una piccola società, seppur di stampo tutto maschile (nel romanzo si incontra un solo personaggio femminile, Zinê Sevda, che tuttavia dipende dagli altri quattro ed è collocato a un livello di poco inferiore) una società che affannosamente respira e soffre e in cui ognuno si può riconoscere. Rinchiusi tutto il giorno nella cella – salvo i momenti in cui le guardie li conducono all’esterno per le torture – ai quattro personaggi non resta che parlare, o meglio raccontare, poiché, sembra dirci Sönmez, da una situazione di chiusura e isolamento le storie ricominciano. Storie di vita vissuta, storie riportate, storie inventate o immaginate; quel che si impara leggendo questo libro è che non conta davvero conoscere l’origine dei racconti, conta il modo in cui essi riempiono l’aria e tengono in vita i prigionieri. Il fil rouge che li lega è la città simbolo che dà titolo al romanzo, poiché «ogni storia gira intorno a Istanbul» e «Istanbul» dice uno dei narratori, «non è una parte di qualcosa, è il tutto in cui i vari pezzi si mettono insieme».

Istanbul Istanbul è suddiviso in dieci parti che corrispondo a dieci giorni di prigionia. Ogni parte ha come narratore uno dei quattro protagonisti, che a turno prendono la parola. Ricorda, a livello strutturale, la cornice del Decamerone, che non a caso è citato dal vecchio Küheylan. E, in fondo, sempre con la peste si ha a che fare.

Il tratto più singolare, o meglio, l’elemento strutturale della storia, è lo specchio, poiché ogni aspetto è raccontato da due prospettive, quella concreta e il suo riflesso – lo stesso titolo ripetuto, a ben pensarci, va in questa direzione. Lontane dall’assomigliarsi, però, queste due facce sono sempre in contrasto, l’una l’opposto dell’altra. Così in Istanbul Istanbul compaiono due città, quella che affiora in superficie, apparentemente viva e dinamica (ma anche il luogo in cui avvengono gli arresti) e quella sotterranea, buia e immobile, dove i protagonisti sono torturati. Questo fa di Istanbul la città «che aveva appreso la realtà dalla natura, ma poi aveva creato le menzogne», e a una simile contrapposizione si lega bene l’idea che emerge a proposito del tempo, che presenta anch’esso due volti. La temporalità, aspetto centrale del romanzo, assume in modo inconsueto una dimensione verticale. C’è il passato, che si riflette nella gloriosa storia del paese, nell’incanto che si svela ancora in molti angoli della città in superficie, nelle sue storie meravigliose, onorate e tramandate di generazione in generazione. E poi c’è il presente che fa a pugni con tutto questo, e a cui pertanto si cerca di non pensare. Lo si relega lontano, in un luogo buio e non visibile, che rispecchia, non a caso, la prigione sotterranea in cui sono rinchiusi i protagonisti. «Sentivamo la mancanza del passato oppure sognavamo il domani. Cercavamo di non considerare il presente», afferma Demirtay lo studente. «A volte raccontavamo storie del passato e a volte del futuro. Per quanto riguardava il presente, pensavamo che fosse un ponte […] avevamo paura che quel ponte si rompesse e che potessimo cadere nel vuoto». Qual è la vera faccia di Istanbul? Quella in superficie o quella sotterranea? La realtà del passato o quella del presente? «La città e il tempo erano la stessa cosa», eppure i cittadini della città di sopra non si curano dei prigionieri.

In una delle tante storie narrate si legge che il tempo di Istanbul è come un uccello, che «vola e vola nel passato. Quando arriva nel presente ferma le ali. Rimane sospeso nel vento. […] Piano piano si libra nel vuoto».

L’ultimo gioco di specchi riguarda il rapporto tra realtà e immaginazione. Trasportati dalle storie, vero e proprio soffio vitale, capita che i protagonisti si ritrovino a banchettare, a sorseggiare raki, a osservare i tramonti pieni della città. Sono sottoterra, sì, e sotto tortura, ma ancora capaci di pensarsi altrove. Così il vecchio Küheylan si presenta offrendo ai compagni sigarette immaginarie, eppure non è pazzo, sta soltanto insegnando agli altri l’incanto e la forza persuasiva dell’illusione.

Istanbul Istanbul di Sönmez è un libro prezioso, di quelli che restano. Parla dell’oscuro presente turco ma lo fa portandosi sulle spalle il bagaglio antico delle narrazioni orali. Sarà che sopra la cella fredda della prigione – sopra le teste dei quattro protagonisti – c’è sempre una città che cammina. Eppure vale anche il contrario, a seconda che si guardi l’immagine o il suo riflesso.

È un atto d’amore, si diceva. E allo stesso tempo un atto di dolore.

 

(Burham Sönmez, Istanbul Istanbul, trad. di Anna Valerio, Nottetempo, 2016, pp. 320, euro 17)

LA CRITICA - VOTO 9/10

Quello di Sönmez è un libro prezioso, di quelli che restano. Parla dell’oscuro presente turco ma lo fa portandosi sulle spalle il bagaglio antico delle narrazioni orali. Sarà che sopra la cella fredda della prigione – sopra le teste dei quattro protagonisti – c’è sempre una città che cammina. Eppure vale anche il contrario, a seconda che si guardi l’immagine o il suo riflesso.