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Gli ultimi metri di corsa

di Milo Busanelli / 18 maggio

Non ho mai fatto male a nessuno. Ero timido, ero introverso, ero asociale. Mi facevo i cazzi miei. Pensavo questo di me perché lo dicevano loro: mio padre, mia madre, mio fratello più grande, i miei amici. Non avevo amici, ma le persone con cui passavo più tempo li chiamavo così.
Ho due figli e il più sano non ha voglia di lavorare, diceva mio padre. Io ero l’altro. Lui lavorava per noi e quando smetteva era stanco. Mamma stava in casa perché mio padre si stancasse meno quando tornava. Mio fratello si riposava. Io facevo finta di studiare.
Prima di me avevano un gatto. Si chiamava Filippo, cercava sempre da mangiare, era rosso. Forse si chiamava Tito e ho pensato fosse un cane. Uno dei miei amici che non erano miei amici diceva che anche lui aveva un cane, anzi due. Solo che ce li aveva ancora. Per questo stavo con lui. Stavo con lui anche se mi faceva lo sgambetto. Io ho smesso e lui ha continuato.
Nel tema dovevo descrivere un famigliare e ho scelto Buck. La maestra ha detto: il cane non vale. Ho rifatto il tema e al posto del cane ho scritto mio fratello, al posto di Buck il nome inventato di mio fratello, al posto della cuccia la camera di mio fratello. Ho preso un’insufficienza.

Casa nostra era un appartamento in un condominio molto grande che in città sarebbe stato piccolo. Anche le persone, finché sono rimasto bambino, erano grandi. Quando sono cresciuto il condominio mi sembrava piccolo perché le persone erano le stesse. Volevo un condominio più grande o altre persone. Volevo vivere in un altro paese oppure in città. Volevo tornare piccolo.
Quando mio fratello è andato via con una donna più grande speravo avremmo preso un cane, invece abbiamo affittato la camera. Non l’ha presa nessuno perché nel paese non c’era niente e il condominio era brutto. Poi ci abita gente di merda, diceva mio padre.
Io stavo zitto anche quando avevo voglia di parlare. Stavo zitto se qualcuno mi chiedeva qualcosa. Dicevano è muto. Dicevano è scemo. Io stavo zitto. Quelli della mia età non erano miei amici perché parlavano. Le ragazze non m’interessavano perché sembravano bambine. Aspettavo la donna più grande che mi avrebbe portato via con lei. Ho aspettato, poi ho smesso. Ho continuato a tacere.
Mio padre si arrabbiava per ogni rumore. Quello del piano di sopra spostava i mobili di notte. Solo dopo si è scoperto che era quello di sotto. I carabinieri hanno chiamato mio padre, poi quello del piano di sopra si è trasferito e quello di sotto ha smesso di fare rumore. L’importante è il risultato, ha detto mio padre.
Anche noi dovevamo trasferirci. Non compravamo niente per evitare di spostarlo. Una casa vera, i vicini più lontani e più simpatici. Mio padre diceva domani, dopodomani o la settimana prossima. Finché mio fratello si è trasferito da solo.

L’estate la passavamo al fiume perché al mare c’era troppa gente e ore di coda per arrivarci. Quando una signora è affogata mia madre sarebbe andata in montagna, ma c’era da camminare. In piscina si pagava l’ingresso. Il parco era pieno di zanzare. Senza condizionatore restavo in casa il più possibile e quando uscivo non sapevo dove andare. Facevo una corsa per sudare di più. Mio padre diceva: quel cretino di mio figlio.
I nonni parlavano al telefono, mi chiedevano come stavo, poi sono morti. Da vivi li confondevo perché non li vedevo mai anche se abitavano vicini. Una nonna somigliava a mia madre, ma era la madre di mio padre. Era lui che non voleva andare da loro. Era mia madre a insistere. Era sempre lui a farla smettere.
Prima che nascessi camera mia era un ripostiglio, quindi il ripostiglio è finito in garage e l’auto l’hanno parcheggiata fuori, tanto era scassata. Il mio letto era un materasso, però era comodo. L’armadio non aveva le ante perché si chiamava scaffale. La finestra non c’era, ma la luce entrava dalla porta. Al posto del lampadario c’era la lampadina, poi ho scoperto che quella c’è sempre, anche se non si vede.
A scuola ci andavo a piedi perché non era abbastanza lontana per prendere l’autobus. Partivo mezz’ora prima e arrivavo mezz’ora dopo. Quando pioveva arrivavo bagnato. Se nevicava arrivavo più tardi. A volte non partivo perché non suonava la sveglia. Perché non la sentivo. Perché non la sentiva mia madre o faceva finta.
La messa iniziava dopo, era più vicina e durava meno. Il prete lo chiamavano Don Pino perché il suo nome era troppo lungo. Anche il paese aveva un nome, stava scritto sul cartello, poi il cartello è sparito e ho smesso di chiamarlo. A scuola era pieno di nomi da imparare, ma cercavo di scordare il mio.
Mio padre andava al bar per giocare a carte, ma perdeva sempre e si ubriacava per dimenticare. Quando vinceva si ubriacava per festeggiare. Se non c’era nessuno si ubriacava per passare il tempo. Oppure si ubriacava a casa.

Mio fratello giocava alle macchinette. Non aveva soldi per giocare e una volta li ha presi dal borsellino di mia madre, ma lei se n’è accorta, poi se n’è accorto mio padre e alla fine ad accorgersene più di tutti è stato mio fratello. Non l’ha più fatto, però ha continuato a giocare.
Lui giocava e io guardavo lo specchio. Somigliavo a me stesso, ma preferivo non guardarmi. Preferivo non mi guardassero gli altri. Per schivare gli sguardi chiudevo gli occhi e mi tappavo le orecchie, ma quella volta che ho attraversato la frenata l’ho sentita lo stesso.
Non mi sono fatto niente, ho detto, ma non mi hanno creduto. Non ci ho creduto neanch’io. Quando mio padre è venuto al pronto soccorso l’ha detto lui e gli hanno creduto subito. Poi si è preoccupato di farmi stare peggio.
Mia nonna, una o l’altra, oppure mio nonno, diceva che ero diventato più grande anche se non mi vedeva mai. Lo capiva dalla voce. La mia voce, per me, era uguale. Invece quelle dei miei nonni erano voci da vecchi che non potevano essere così quando erano giovani e nemmeno quando erano medi. Mia madre aveva una voce vecchia perché era vecchia dentro. Io ero giovanissimo e lo sarò sempre.
I miei compagni andavano al mare d’estate e a sciare d’inverno, qualcuno andava in posti lontani. Io stavo a casa. Il mondo lo guardavo in televisione, anche se non potevo scegliere cosa guardare perché il telecomando lo usava mio padre e se non c’era lui lo usava mia madre e se non c’era nessuno era meglio che studiassi perché la televisione faceva male. Però non studiavo.

Mio padre faceva i muscoli a lavorare, mia madre non ne aveva bisogno, mio fratello non li aveva e a braccio di ferro con mio padre perdeva sempre. Però vinceva con me perché era più grande. Per batterlo facevo le flessioni e andavo a correre, ma perdevo lo stesso. Perdevo con i miei compagni di classe. Loro facevano sport, ma lo sport costa, la corsa e le flessioni no.
L’unica sufficienza che avevo era in ginnastica. Pure in religione, ma quella non contava perché non credevo in dio, anche se facevo finta. Però bestemmiavo come gli altri, che erano più furbi perché non si facevano sentire. Quando l’ha saputo mia madre mi ha fatto confessare. Il peccato è sparito, la nota sul registro no.
Volevo limonare, ma era difficile perché bisognava farlo in due. Le mie compagne di classe non volevano. I miei compagni neanche. Mamma mi faceva schifo. Allora l’ho tirato fuori in classe e fuori ci sono finito io. A saperlo prima l’avrei fatto più spesso.
Anche mio padre lo faceva, ma lui era grande. Se mia madre non voleva lo faceva lo stesso. Mi tappavo le orecchie, ma sentivo comunque, allora chiudevo la porta. Se mia madre aveva il labbro gonfio capivo che l’aveva fatto o lei l’aveva meritato.
Come quando volevano licenziare mio padre perché un altro operaio era finito in ospedale. Mica l’ho ammazzato, diceva. Poi l’hanno tenuto perché aveva una famiglia da mantenere. Perché era successo fuori dal cancello. Perché aveva ragione e gli altri avevano torto.
Il figlio dell’operaio aveva tre anni in più, ma se fossero stati di meno era con quattro amici, e quando mi hanno preso nessuno ha visto. Mia madre non ha chiesto niente perché non avrei risposto, altrimenti mi avrebbero preso ancora. Secondo mio padre dovevo imparare a difendermi, ma lui non mi ha insegnato.

Ho pensato di portare un coltello: quello di mio padre era suo, quelli da tavola non erano appuntiti, quelli da cucina erano troppo grossi e le tasche erano piccole. Ho preso un accendino. Quando mi hanno rubato la merenda ho provato a dar fuoco agli zaini, ma era scarico, allora li ho buttati dalla finestra, ma eravamo al primo piano e non si sono fatti niente. Però hanno fatto male a me.
Quando ho scoperto che non ci sentivo bene da un orecchio ho pensato che fossero le botte, ma non ricordavo quali. Tanto valeva pensare che fosse colpa mia. Però non l’ho detto a nessuno, se qualcuno mi chiamava dall’orecchio sbagliato facevo finta di essere scemo. Scemo lo ero già e non volevo diventare sordo. Bastava evitare le botte dall’altra parte.
Mio fratello tornava a casa coi lividi perché cadeva spesso. Eppure l’ho visto sempre in piedi. Ha smesso quando hanno cominciato a cadere gli altri. Quando sei grande è più facile perché puoi far cadere i più piccoli. Un giorno sarebbe stato il mio turno, ma quel giorno non arrivava oppure gli altri non erano abbastanza piccoli o io non avevo abbastanza equilibrio. Intanto continuavo a cadere.
I vestiti si strappavano e mia madre doveva comprarli coi soldi di mio padre, che per quella spesa doveva prendersela con qualcuno, così preferivo tenerli strappati fino a quando non si fossero strappati ancora. Almeno in estate si strappavano meno o c’erano meno vestiti. Invece d’inverno faceva freddo e non ne avevo altri o non volevo strappare anche quelli.
Mio fratello non mi difendeva perché nessuno difendeva lui, poi era troppo preso a difendere se stesso. Dovevo cavarmela da solo, anche se in famiglia eravamo in quattro, perché un giorno loro sarebbero spariti e io sarei rimasto. Se non servivano, tanto valeva sparissero subito, invece restavano. Poi ne è sparito uno e il resto non è cambiato.

Gli altri studiavano in gruppo e io non studiavo. Gli altri uscivano in branchi e io rimanevo a casa. Gli altri giocavano a squadre e io stavo in panchina. Se potevo uscivo, tranne quando ero già fuori. Tanto valeva restarci e aspettare che finisse una cosa perché ne iniziasse un’altra. Quando ricominciava tutto ero ancora lì ad aspettare.
Anche studiare era inutile, nessuno mi avrebbe pagato l’università e se me l’avessero pagata non volevo farla. Non volevo neanche lavorare. Non volevo diventare come mio padre. Non volevo restare qui o trasferirmi da un’altra parte per fare la stessa vita che non avevo vissuto.
Quando mio fratello ha chiamato per chiedere aiuto gli ho detto che non potevo aiutarlo. Voleva parlare con mamma, ma lei non c’era e papà nemmeno. Se ci fosse stata non avrebbe saputo aiutarlo. Se ci fosse stato lui non avrebbe voluto.
Era vietato parlare a mio fratello ed era vietato parlarne. Non ne parlavamo quando c’era mio padre e avremmo voluto parlarne quando c’eravamo solo io e mia madre, ma finivamo per parlare di qualcos’altro o stavamo zitti perché i muri non avevano orecchie, ma io e lei sì, e avevamo una bocca per dirlo a mio padre, che se la sarebbe presa con tutt’e due e pure con mio fratello, ma dal momento che lui non c’era la sua parte sarebbe toccata a noi.
Mio fratello cercava dei soldi e se cercava qualcos’altro i soldi sarebbero bastati, diceva mio padre. Ecco perché non bisognava dare soldi a nessuno, altrimenti risolvevi un problema agli altri e non ne avevi abbastanza quando sarebbe toccato a te. E meno soldi avevi più problemi finivi per non risolvere e meno soldi ricevevi dagli altri, così ti toccavano nuovi problemi e meno soldi ancora. Meglio risparmiarli, e se proprio bisognava spenderli meglio lasciarlo fare a mio padre.

Se stavo in casa rischiavo di fare qualcosa di sbagliato e di prenderle, se stavo fuori rischiavo di prenderle perché non stavo in casa. Cercare di non sbagliare rischiava di essere uno sbaglio e gli sbagli erano così tanti che non sapevo cosa fare. Ciò che era giusto oggi diventava sbagliato domani perché potevo fare le stesse cose, ma l’umore di mio padre cambiava. Almeno mia madre poteva prendersela con me mentre io non potevo prendermela con lei, perché se mi avesse dato uno schiaffo mio padre ne avrebbe aggiunto un altro, ma se l’avessi dato a mia madre lei me l’avrebbe restituito e mio padre mi avrebbe preso a calci. Per fortuna eravamo solo in tre.
Anche mio nonno le dava a mio padre che non voleva vederlo e non voleva che lo sapessimo. Non voleva far sapere che gliele aveva ridate. Non voleva perché non è bello suonarle a un vecchio in carrozzina. Non voleva vedere la tomba, che non vedeva neanche mia madre perché non era suo padre, e nemmeno io perché, pur essendo mio nonno, non l’avevo visto quasi mai.

Non volevo un figlio e nessuna donna l’avrebbe voluto da me, ma nemmeno il figlio mi avrebbe voluto come padre. Se avessi avuto un figlio non l’avrei toccato, ma mio padre avrà detto lo stesso prima di avere me, allora tanto valeva non saperlo e andare avanti. Anche se stavo fermo.
Le stagioni se ne andavano e non pensavo sarebbero tornate. Tornava il freddo e tornava la neve, troppo freddo, e più avanti sarebbe stato troppo caldo e in mezzo troppo piovoso. Anche quando andava bene avevo altri problemi e se non ci pensavo erano loro che pensavano a me. Per questo speravo ci fosse più freddo o più caldo, così avrei avuto un problema più grande che avrebbe nascosto gli altri e a forza di nasconderli li avrebbe risolti. Invece restavano.
Se avevo la merenda dovevo consegnarla a chi era più grosso di me. Se non gliela davo la prendeva lui. Se non avevo la merenda dovevo rubarla a qualcuno e quando se ne accorgeva dovevo restituirla rubandola a qualcun altro oppure pagarla coi soldi che non avevo e dovevo rubare. Così è finita che il preside ha chiamato mia madre per dire che ero un ladro e quando ho raccontato la verità ha risposto che era la mia parola contro quella degli altri, ma loro erano in tanti e io ero da solo.
Dal momento che ero stato bugiardo una volta, ogni volta che parlavo era una bugia. Ogni volta che a qualcuno mancavano dei soldi li avevo rubati io. Se quel giorno ero malato li avevo rubati il giorno prima. Così tutti dicevano di aver perso soldi che non avevano mai avuto. Mio padre diceva che non dovevo difendermi, ma farli stare zitti prima che potessero attaccarmi, allora li attaccavo e loro mi zittivano.
Dicevano: buon sangue non mente, ammesso sia il sangue di tuo padre. Quando l’ho detto a mio padre hanno smesso, però mi chiedevano la merenda e io continuavo a non dargliela perché mia madre non la dava a me. Per farmela pagare mi facevano mangiare la confezione della loro. Almeno non avevo debiti.

Ho sempre evitato di andare in gita. Mio padre non avrebbe voluto perché la gita costa, e se non ci andava lui, non capiva perché ci potessi andare io. Se avesse voluto sarebbero stati i miei compagni a non volere me. Se avessero voluto loro si sarebbero messi di trasverso i professori.
In casa mi annoiavo e annoiavo mia madre, che quando non sapeva cosa fare non voleva farlo con me, così stavo fuori e giravo per il paese dove mi chiedevano perché non stavo in casa. Quando ero piccolo i bar erano da grandi e quando sono diventato abbastanza grande anche i miei compagni ci andavano, ma dentro non mi volevano perché non mi volevano neanche in classe. Solo che in classe ero obbligato ad andarci, lì no, così mi obbligavano a stare fuori.
Andavo nel bosco perché non c’era nessuno e immaginavo non ci fossi io. Quando sono arrivati i cacciatori ho cercato di restare, ma mi hanno trovato e se non fossero stati loro l’avrebbero fatto i proiettili che sparavano, allora sarebbe stato un problema per tutti. Avrei voluto dire: non per me.

Anche mio fratello usciva senza dire dove andava e quando tornava diceva di non essere stato da nessuna parte. Stessa cosa avrei detto io se mia madre me l’avesse chiesto. Non sono mai uscito con lui che non mi ha invitato, e se mi fossi proposto non mi avrebbe preso perché non sapeva dove andare nemmeno da solo. Ma lui poteva scegliere, io no. E ora non potevo raggiungerlo perché non sapevo dov’era e nemmeno se c’era. Tra i due, preferivo mancare io.
A volte usciva mia madre senza dirlo e se la vedevo non lo diceva lo stesso, e se glielo chiedevo non rispondeva. E no, io non potevo andare con lei. Mi sarei annoiato, quindi meglio mi annoiassi da solo. Solo che lei aveva la macchina e io ero a piedi. Ero a piedi anche quando potevo avere un motorino perché bisognava comprarlo e se avessimo avuto i soldi avremmo già preso una bicicletta, quindi potevo scordarmi da subito di avere una macchina. Andavo a piedi finché mi facevano male le gambe.
Almeno avevo le braccia, ma non sapevo cosa farne. Se mi avessero fatto male anche quelle mi sarei annoiato meno, così aspettavo il momento in cui le avrei prese perché mi facesse male dappertutto, ma non dovevo aspettare molto. Quando capitava rimpiangevo il momento prima.
Se le prendevo stavo zitto perché quando mia madre urlava nessuno ascoltava, e a forza di sentirla non l’ascoltavo neanch’io, così pensavo che se avessi urlato non mi avrebbe ascoltato lei e nemmeno mi sarei ascoltato da solo. Però le botte le sentivo lo stesso. A volte le sognavo e mi svegliavo, altre volte ero già sveglio e avrei voluto addormentarmi. Quando le prendevo dicevo sto sognando, ma calci e pugni erano reali.
Quelli che prendevo a casa avrei detto di averli presi a scuola, quelli che prendevo a scuola di averli presi a casa, ma nessuno mi faceva domande e a forza di prenderle non avrei saputo rispondere. Tornavo a casa con un livido e scoprivo che ne aveva uno anche mia madre. Non le chiedevo niente e i vicini non se ne accorgevano perché evitavano di guardarla, per sicurezza evitavano di guardare me, al punto che anch’io evitavo di guardare loro anche se non avevano lividi. O io non li ho mai visti.
Vedendo un livido di mia madre non pensavo a cosa fosse successo, non potevo saperlo e quando succedeva cambiavo stanza aspettando che finisse, tranne quella volta che sono tornato e stava ancora accadendo. Il collo di mia madre era tra le mani di mio padre, lui stringeva e lei aveva smesso di urlare, ma lui continuava a stringere, allora sono uscito per andare più lontano. Mi sono messo a correre per arrivarci prima. Più correvo meno sapevo se ero arrivato, quindi correvo più forte e mi stancavo di più, finché mi sono scordato della meta e della corsa, ma correvo lo stesso.

 

Milo Busanelli è nato a Reggio Emilia nel 1981. Ha realizzato cortometraggi e scritto sceneggiature per lungometraggi finaliste al Riff e al Sonar. I suoi racconti sono stati selezionati al concorso 8×8 e pubblicati su Cadillac, inutile, #self, Zibaldoni, Squadernauti, L’Inquieto, Ellin Selae, Il Colophon, Argo, Colla, Verde, la rassegna stampa di Oblique, Cattedrale, Abbiamo le prove e Nazione Indiana.