Libri
“L’incanto del lotto 49” di Thomas Pynchon
Un classico postmoderno
di Michelangelo Franchini / 2 febbraio
Romanzo giovanile, L’incanto è già capolavoro, nel senso etimologico: a questo romanzo fanno capo tanto la pynchoniana produzione letteraria, la sua personalissima poetica della paranoia – insieme kierkegaardiana angoscia delle possibilità e beckettiana impasse dell’azione –, quanto la nozione di letteratura postmoderna, con tutti i topoi che ne formano il canone.
Strutturato come un racconto, questo romanzo-culto, pietra miliare del genere, è insieme riflessione sulla comunicazione, sull’architettura narrativa e sulle molteplici e tautologiche narrazioni che costituiscono la vita umana, tanto che si è arrivati a chiedersi se davvero il giovane autore fosse artefice consapevole della mole di significati e simbolismi che i critici hanno poi scovato nell’oceano di riferimenti – che adornano e creano la vicenda narrativa – essendo essa stessa nient’altro che una congerie di cultura pop vestita con abito kafkiano.
È tuttavia proprio l’indecifrabilità il punto focale del romanzo, l’impossibilità di attribuire un (unico) significato al significante narrativo, impossibilità che Beckett realizzava con un palco vuoto e due attori, e che nella società postmoderna è invece il risultato di un’assordante cacofonia di storie, drammaticamente priva della catarsi che nell’ultima riga di Aspettando Godot sottolineava la sorte di Vladimiro ed Estragone, il monolitico «non si muovono» dopo il quale non poteva che esserci il buio.
Se lì si procedeva per scarnificazione, tanto da lasciare solo un possibile scambio dialettico, qui si va nel massimalismo: una molteplicità di scambi, dialoghi, personaggi, senza che tuttavia ci sia vera comunicazione, anzi, senza la possibilità, negata al lettore, di sapere se la comunicazione, di qualsiasi tipo, è effettivamente possibile oltre il fraintendimento, oltre la semplice chiacchiera autorappresentativa.
Questo massimalismo sarà poi peculiare della narrativa postmoderna. In Barth sul piano della retorica, che oltrepassa e investe il piano strutturale-formale; in Wallace anche semantico, che costituisce direttamente il piano strutturale-formale; in Barthelme solo immaginifico-grottesco.
Il tratto comune suggerisce filiazione: a guardare le epoche di questi autori sarebbe impossibile stabilire una gerarchia lachmanniana basata sulla testualità, e tuttavia non è sbagliato dire che c’è un retroterra comune: la postmodernità, e in questo caso – tralasciando le complesse descrizioni di questo altrettanto complesso periodo storico – in particolare: la comunicazione nella postmodernità.
È qui il nocciolo, qui il frammentismo pop barthelmiano, il manierismo barthiano, la caleidoscopia wallaciana. La comunicazione nella postmodernità è, indipendentemente dal modo in cui la si rappresenti, un’overdose di informazioni, una cacofonia priva di struttura, come lo è la ricerca di Oedipa Maas, incerta, falsata, come lo è il complotto che sembra esserci dietro.
Complotto che forse è paranoia e forse esiste: il tocco dell’artista è nel non concludere il finale, restituendo il romanzo alla nudità della forma, e il verdetto a un differimento infinito che tradisce il lettore: nell’era della post-verità i fatti non esistono più. Concorrono con le percezioni ad armi pari, creando una comunicazione che fa rasentare la cronaca ai picchi più surreali della narrazione pynchoniana.
A essere al centro del libro è proprio la possibilità che esista un altro tipo di comunicazione, un sistema di smistamento postale alternativo a quello governativo, un’alternativa a quella che è la narrazione ufficiale, da leggersi in vari modi: oltre al già citato metatestuale – la ricerca di una nuova forma di comunicazione come ricerca esistenziale – quello sessuale: si indaga sull’american mail, stessa pronuncia di male, maschio.
Ma la ricerca è epocale: cosa può il romanzo dopo gli estremi sconfinamenti del modernismo? È destinato a ripetere la pirotecnica esibizione di tecniche retoriche, sperando d’incantare qualcuno? Questo romanzo non prova a rispondere, ma si pone a fondamento di un’alternativa che, preso atto di ciò che c’era prima, possa interiorizzarla e costruire la forma narrativa dell’era digitale: un’infinita, insormontabile moltitudine di dati impossibili da vagliare e classificare, in cui tutto è storia, e niente lo è.