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Jack London: una biografia immaginaria

di Antonio Merola / 23 marzo

«Avere qualcosa di interessante da dire non l’assolve dal non tentare di cercare di raccontare quel qualcosa nel miglior modo possibile […] Se avesse fatto un minimo studio su cosa viene pubblicato nelle riviste si sarebbe reso conto che la sua storia non era di quelle che interessano. Se avete intenzione di scrivere per avere successo e denaro, è necessario capire quali sono gli argomenti commerciabili, quelli presenti sul mercato. La sua storia non è vendibile. Se avesse preso una mezza dozzina di serate trascorse fuori e fosse andato in una sala di lettura a informarsi su tutte le storie pubblicate nelle riviste contemporanee, avrebbe capito in anticipo che la sua storia non era affatto vendibile. C’è solo un modo per iniziare, ed è quello di cominciare; e bisogna farlo con pazienza e tanto duro lavoro, preparatevi per tutte le delusioni – le stesse di Martin Eden di prima di affermarsi – che erano le mie, perché ho semplicemente dato al mio personaggio immaginario, Martin Eden, le mie prime esperienze del mondo della scrittura».

Siamo a Oakland, California. Con queste parole il 26 ottobre 1914 Jack London risponde a uno scrittore esordiente che gli aveva spedito il proprio manoscritto: è una spietata stroncatura. Solo due anni dopo morirà per un’overdose di antidolorifici al Beauty Ranch, l’enorme casa di campagna che aveva acquistato nel 1910. Una morte ipotetica, perché ancora oggi nessuno è davvero sicuro che si sia tolto la vita volontariamente. Quando si tratta della biografia di Jack London a dire il vero, nessuno è mai sicuro di niente.

Sappiamo tuttavia che di proposte simili ne riceveva a centinaia, come ci insegna la raccolta Pronto soccorso per scrittori esordienti (minimum fax, 2005). Ma perché proprio a lui? La risposta più semplice è che Jack London era uno degli scrittori americani con maggiore successo a cavallo tra i due secoli. C’era tuttavia una motivazione ancora più forte: con Jack London nasce il mestiere dello scrittore. Agli inizi del Novecento cioè il mercato editoriale aveva cominciato a stabilire delle regole precise: questo significava che non bastava più sapere scrivere bene e aspettare che un grande editore accettasse il proprio manoscritto. Bisognava prima fare la “gavetta”.

Il problema era che nessuno aveva mai spiegato ai giovani scrittori come e dove farla. Ecco perché si rivolgevano a Jack London: con il romanzo Martin Eden (1909) fu il primo a raccontare tutto ciò che uno scrittore esordiente doveva fare oltre allo scrivere bene per riuscire a pubblicare qualcosa. Non a caso Fernanda Pivano nella prefazione all’edizione italiana gli riconosce un ruolo da manuale di orientamento alla scrittura: «Martin Eden diventò popolare soprattutto tra i giovani scrittori, come una specie di libro di testo: c’erano centinaia di giovani Martin Eden curvi sui manoscritti e soffocati dai rifiuti degli editori» (1979). In breve: il libro rappresenta le vicende di un marinaio piuttosto ignorante che attraverso uno studio individuale e con molta pratica sulle riviste letterarie riesce ad affermarsi come uno scrittore di successo, anche se l’obiettivo dichiarato dell’opera era quello di criticare l’impossibilità per il superuomo nietzschiano di coesistere con una società che rimane immutata rispetto al cambiamento del protagonista.

 

 

Ma Jack London aveva fatto qualcosa di più. Aveva cioè inventato il personaggio di se stesso: Jack London. Non solo riusciva a scrivere decine e decine di romanzi e centinaia di racconti brevi, ma sembrava sempre recuperare l’oggetto delle proprie narrazioni da una pluralità di esperienze sul campo: la biografia era cioè il principale materiale da cui attingere per la scrittura. Basti pensare tra tutti a Il diario del vagabondo oppure a La Strada (oggi pubblicati insieme da Castelvecchi, 2010), che diventarono motivi di ispirazione della futura Beat Generation: si trattava di un resoconto fedele, nel primo caso persino diaristico, che apriva la strada a quel realismo puro che durante tutto il secolo cercherà di fronteggiare e di sostituirsi con prepotenza all’altra grande corrente, quella del romanticismo americano. Eppure le cose non sembrano stare proprio come Jack London ce le racconta. Come era possibile infatti che trovasse il tempo materiale per fare tutte le cose che diceva di fare e al tempo stesso per scrivere con la costanza giornaliera che raccomandava ai giovani esordienti? Allora nessuno se lo chiedeva: Jack London doveva sembrare a tutti una specie di eroe.

 

 

Che invece fosse tutta una menzogna, una costruzione ideale di se stesso a uso e consumo del pubblico lo denunciarono più tardi due studi americani (che nel 1988 Romano Giachetti recensiva, inascoltato, su “la Repubblica”): The letters of Jack London (Stanford University Press, 1988, edited by Earle Labor, Robert C. Leitz and Milo Shepard) e American Dreamers di Clarice Stasz (St. Martin’s Press, 1988). Scriveva infatti Giachetti: «Si sarebbe detto che London preso com’era anche da altre attività: coltivatore, commerciante, imprenditore non avesse avuto tempo, specialmente negli ultimi anni, per scrivere nemmeno una lettera. Invece ne scrisse a migliaia, di lettere; e una cospicua selezione esce ora in tre volumi col titolo The Letters of Jack London. Non è un epistolario qualsiasi. È il contraltare (uomo) del personaggio (scrittore) che London aveva costruito a uso e consumo del mondo: se stesso. Come se non bastasse, l’uomo esce ridimensionato (anche se non per questo svilito) in un altro libro che rimette in circolazione il suo nome negli Stati Uniti: American Dreamers, con cui Clarice Stasz ripercorre la singolare storia d’amore, anzi il patto vita-morte, che legò London a Charmian Kitteridge, la sua seconda moglie».

Si era aperto ufficialmente il caso biografico London: capire chi fosse stato davvero lo scrittore era di una importanza cruciale per la storia della letteratura americana. Non si voleva criticare il fatto che avesse inventato una vita alternativa alla propria sostenendone l’esclusività, ma di comprendere piuttosto se nella scrittura di Jack London pesasse di più il dato biografico o l’invenzione: e in questo caso, dal momento che l’invenzione tendeva sempre alla costruzione di un personaggio eroico, alla mitizzazione delle proprie imprese e in generale a una magica idealizzazione della personalità, se non si potesse parlare invece di romanticismo.

Nel 2014 Matteo Nucci in un articolo uscito sul Venerdì di “la Repubblica” e poi ripubblicato su Minima et Moralia segnala quello che potremmo definire come il secondo capitolo di questa storia, quantomeno per la ricezione che ne ebbe la critica italiana: l’anno precedente Mattioli 1885 e Castelvecchi pubblicavano rispettivamente Jack London. Vita, opere e avventura a cura dello studioso americanista Daniel Dyre e Jack London, per la firma di Irving Stone – i due volumi tuttavia risalivano rispettivamente al 1948 e al 1938: in America quindi la raccolta di lettere e American Dreamers servirono piuttosto ad avallare le tesi dei due studiosi.

Scrive Nucci: «Opposti da ogni punto di vista […] Dyer, in Jack London. Vita, opere e avventura è asciutto e chirurgico: fa uso di tutto quello che nell’ultimo secolo gli studiosi dello scrittore hanno messo insieme, soppesato, codificato. Stone, in Jack London, è evocativo e torrenziale: lavora infatti sugli uomini, sui resoconti di chi conobbe, amò oppure odiò London, dai familiari agli amici fino ai semplici conoscenti (il libro risale al 1938 quando molti coetanei di London erano ancora in vita). […] Le idee circa la personalità apparentemente lineare di Jack London si snodano con naturalezza, seguendo gli eventi principali della sua breve esistenza. Nascita, dedizione al lavoro, amore, morte. Nulla di più semplice. Benché fin dalla nascita tutto sia avvolto nel mistero».

Comparare una biografia probabilmente inventata, con una reale ma di cui non abbiamo sufficienti fonti è un lavoro critico e filologico enorme, il quale non è detto che porterà a una soluzione definitiva. Ma credo che a questo punto sia necessario aggiungere un altro dato: nella grande antologia Americana (Bompiani, 1941) Elio Vittorini, che probabilmente non poteva conoscere a fondo i dettagli di questa storia, aveva inserito il racconto Accendere una fiammata all’interno della sezione critica Leggenda e verismo, che si poneva come una stagione di transizione tra il simbolismo originario proprio della letteratura americana e quella del «rivolgimento delle forme». Ecco: sarà Marco Paolini, riprendendo proprio quel racconto con il nuovo titolo di Accendere un fuoco, assieme ai racconti Macchia e Bastardo, che nel 2015 porterà in scena al Piccolo Teatro Strehler di Milano la personale Ballata di uomini e cani.

Dove che sia la verità, secondo Paolini è la capacità di ingigantire e allo stesso tempo di credere davvero grande ciò che ha vissuto a rendere Jack London… Jack London: «Cerca le scorciatoie, vuole diventare grande. Beve il whiskey quando ha voglia di caramelle, molla il lavoro perché ha voglia di spazio. Va in mare, la baia di San Francisco diventa il mare per lui. E la sua barchetta diventa la nave, perché della barca lui è capitano e riesce perfino ad avere un marinaio – a sedici anni. Poi non gli basta più: sente in qualche modo il richiamo dal mare della terra, dei ragazzi di strada che lo sfidano a salire il colle (come dicono loro) e cioè a prendere il treno merci che attraversa la Sierra Nevada – ovviamente prenderlo al volo, da clandestino. Ma non scende subito per tornare indietro e dire ce l’ho fatta. Non lo dirà agli altri, ma continua il viaggio. Lo allunga. E dai treni non scende se non per farsi sbattere in galera come vagabondo. Prende delle storte, torna a casa e ne prende un’altra nel momento in cui ha deciso di raddrizzarsi la vita e mettersi a studiare, ecco che arriva la tentazione di andare a cercare l’oro. Non lo troverà… però l’esperienza in mezzo ai cercatori del grande Nord gli dà la materia per farlo diventare scrittore», (da un commento di Marco Paolini alla Ballata di uomini e cani).