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Il punto sull’accoglienza #2

di Francesco Scarcella / 9 luglio

Nel precedente articolo abbiamo spiegato in linea generale come funziona il diritto di asilo, la procedura standard alla quale accede chi fa richiesta di protezione internazionale e che dà diritto all’accoglienza. Adesso cerchiamo di spiegare che cos’è l’accoglienza e come funziona.

Il primo aspetto da chiarire è che quando si parla di accoglienza non si intende il principio generale dell’accoglienza ovvero, come recita subito il dizionario Treccani: «L’atto di accogliere, di ricevere una persona; il modo e le parole con cui si accoglie», ma la gestione di veri e propri centri che garantiscano al richiedente non solo il vitto e l’alloggio ma soprattutto la corretta procedura per la richiesta di asilo.

Il secondo aspetto, altrettanto importante, è che viene accordata un’accoglienza non solo per una manifesta indigenza del beneficiario ma proprio perché la richiesta di protezione internazionale è una procedura delicata che ha bisogno di tempi e modalità adeguati. Dunque va dato modo all’ospite di capire e avere una piena consapevolezza dei propri diritti e doveri; richiedere protezione in modo sereno e protetto; dimostrare in maniera chiara e inequivocabile tutti quegli aspetti non immediatamente riscontrabili (traumi, torture o persecuzioni subite).

Non è possibile dunque stabilire la concessione o meno del diritto di asilo al momento dello sbarco, e nemmeno nell’arco di pochi giorni. Senza considerare che dovrebbe valere in ogni caso un principio di soccorso umanitario che dà comunque diritto all’accoglienza, visto che, come abbiamo detto nel precedente articolo, la commissione che valuta la richiesta di asilo può anche accordare, nei casi in cui non sia ha diritto all’asilo politico o alla protezione sussidiaria, un permesso di soggiorno umanitario.

È necessaria una premessa. Per molti banale, mi rendo conto, ma fondamentale per considerare un “centro di accoglienza” come una qualsiasi struttura che a fronte di un bando dello Stato fornisce un servizio rivolto alle persone. Entrare dunque nell’ottica che un centro di accoglienza non è un posto pericoloso, off limits e abitato da soggetti disperati e ai margini. Un centro di accoglienza è una casa, prima di tutto, che offre ospitalità, cibo e assistenza legale, burocratica e educativa a persone che hanno richiesto protezione internazionale. Bisognerebbe invertire la tendenza piuttosto diffusa ad associare un centro di accoglienza alla paura, alla delinquenza e alla sporcizia. Un centro di accoglienza non è un pericolo per la popolazione.

 

 

Vediamo allora quali e quanti tipi di centri di accoglienza esistono, come funzionano quali servizi devono offrire.

 

Centri di primissima accoglienza

Hotspot e quelli che una volta venivano chiama Cpsa (Centri di primo soccorso e accoglienza) e che normalmente sono in prossimità dei luoghi di sbarco. Li abbiamo messi insieme perché non c’è più una distinzione così netta tra i due centri. In molti casi è l’hotspot stesso a fungere da centro di primissima accoglienza da dove, oltre al soccorso e all’identificazione, verrà avviato l’iter per la richiesta o meno di asilo e dunque predisposto il trasferimento presso un’altra struttura di prima accoglienza o, per chi non richiede protezione, presso un Cpr (Centri di permanenza e rimpatrio), quelli che nel precedente articolo abbiamo definito erroneamente Cie perché prima della nuova denominazione secondo la legge Minniti-Orlando si chiamavano così.

 

Centri di prima accoglienza

Cara (Centri di accoglienza per richiedenti asilo) che qualche tempo fa si diceva dovessero essere tutti chiusi ma che ancora oggi sono attivi (i più “celebri” sono quelli di Castelnuovo di Porto e Mineo) la cui gestione è affidata tramite bandi della prefettura del territorio di riferimento (in genere della durata di tre anni). Sono i centri di accoglienza che contengono il maggior numero di richiedenti e possono superare anche i cento ospiti. Sono le uniche strutture miste, ovvero che possono accogliere al loro interno uomini, donne e famiglie. Non ne vengono più aperti di nuovi ma i bandi mirano al mantenimento di quelli attuali.

Cas (Centri di accoglienza straordinaria), sempre regolamentati da bandi delle prefetture. Ormai non hanno più nulla di “straordinario”, perché ai Cas è demandata quasi tutta la “prima accoglienza”, ovvero l’intero l’iter per la commissione territoriale e l’eventuale ricorso in caso di diniego. Possono essere maschili, femminili, famigliari o per minori non accompagnati (questi ultimi chiamati più correttamente Cpim).

 

Centri di seconda accoglienza

Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati), che con l’ultima legge possono accogliere solo chi ha già avuto lo status (asilo politico, sussidiaria o umanitario) per favorirne un adeguato processo di integrazione. La gestione degli Sprar viene affidata agli enti locali. Dunque non c’è un controllo diretto delle prefetture, come per i Cara e i Cas, ma un servizio centrale predisposto dal Ministero dell’Interno e gestito dall’Anci (Associazione nazionale comuni italiani). Possono essere maschili, femminili, famigliari o per minori.

I bandi possono differire a seconda della tipologia di centro ma tutti impongono all’ente vincitore (a fronte dei famosi 35 euro a ospite – 45 per i minori –) la garanzia dei seguenti servizi (sintetizzo):

Servizi di gestione amministrativa (Cara e Cas devono rendere conto alle prefetture, gli Sprar agli enti locali).

Servizi di assistenza alla persona: informativa burocratica e legale sull’iter della domanda di protezione; mediazione linguistica-culturale, assistenza sociale e psicologica; supporto all’integrazione e orientamento al lavoro; corsi di italiano; distribuzione, conservazione e controllo dei pasti; distribuzione occorrente per la cura e l’igiene della persona, per i servizi di lavanderia, per la pulizia e la manutenzione dei locali esterni e interni del centro; distribuzione vestiario (come da specifiche da bando); assistenza sanitaria.

Pocket money giornaliero di 2,50 euro per ogni richiedente. Una sorta di gettone di presenza che consente al beneficiario di incassare ogni mese fino a un massimo di 75 euro. Molte cooperative ripartiscono questi 75 euro tra soldi cash, ricariche telefoniche e abbonamento mensile dei mezzi pubblici, altre riescono a garantire al richiedente tutti i 75 euro cash e a fornire comunque anche l’abbonamento dei mezzi pubblici (più facile se il centro si trova in un contesto urbano).

Quando si parla dunque con superficialità dell’adeguatezza o meno dei “35 euro a richiedente”, bisognerebbe tenere sempre presenti tutti i servizi che sarebbe bene garantire per gestire una buona accoglienza.

Tra l’altro, dobbiamo evidenziare un altro aspetto decisivo: l’associazione, l’ente o la cooperativa vincitrice del bando dovrebbe assicurare l’impiego di personale qualificato.

In un centro di accoglienza ci lavorano dei professionisti. Il mito che associa il lavoro nell’accoglienza esclusivamente al volontariato, alla filantropia, alla religione, all’ideologia socialista (o “buonista”, a seconda dei punti di vista) o alla pura speculazione è bene sfatarlo una volta per tutte. I mediatori sono professionisti, gli insegnanti di italiano sono professionisti (sebbene il Miur se ne disinteressi letteralmente), gli psicologi e gli assistenti sociali sono professionisti e anche gli operatori (soprattutto quelli legali, la cui importanza abbiamo illustrato nel precedente articolo).

 

 

Ma mettiamoci nei panni di un richiedente asilo adulto che entra per la prima volta in una struttura di accoglienza. Lo chiameremo Mario, del resto anche noi abbiamo una discreta tradizione legata all’emigrazione.Mario viene trasferito da un hotspot, o da un Cpsa presso un Cas della periferia di Roma (è molto difficile che un centro di accoglienza venga aperto in zone centrali o residenziali, questo perché, come dicevamo prima, vi è la percezione da parte della popolazione, e in quanto percezione non giustificata dai fatti, che un centro di accoglienza sia un posto pericoloso) da dove prenderà il via ufficialmente l’iter per la sua richiesta di asilo.

Al primo appuntamento all’ufficio immigrazione della Questura, Mario riceve il famoso “cedolino” una striscetta di carta (di circa 20×4 cm) con foto che è a tutti gli effetti un permesso di soggiorno provvisorio per richiesta asilo (anche se non tutti sono disposti a riconoscerlo come tale). Il permesso di soggiorno per richiesta asilo ha una validità di sei mesi, rinnovabile fino alla fine della procedura.

Dietro al cedolino verrà indicata la data del secondo appuntamento (che ha una tempistica imponderabile, l’attesa può andare dalle due settimane fino al mese, a volte anche di più). Al secondo appuntamento è previsto il fotosegnalamento e la compilazione del cosiddetto C/3, il modello per il riconoscimento dello status di rifugiato ai sensi della Convenzione di Ginevra sui rifugiati. In questo modello, oltre ai dati anagrafici, alla presentazione di una residenza (della struttura di accoglienza se ospite presso un centro o di una dichiarazione di ospitalità nel caso di domanda reiterata o per chi non ha richiesto l’accesso al circuito d’accoglienza), a Mario verrà richiesto di descrivere (anche nella propria lingua) il viaggio dal Paese d’origine verso l’Italia; di raccontare in breve i motivi per cui ha lasciato il proprio Paese; di allegare eventuale documentazione a supporto. Se Mario possiede della documentazione talmente evidente a sostegno della propria richiesta, non ci sarà neppure bisogno dell’audizione in commissione e gli verrà riconosciuto lo status in tempi relativamente brevi.

Ma nella maggior parte dei casi sarà necessario il passaggio presso la commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale (per la convocazione possono passare anche mesi dalla compilazione del modello C/3).

Se in commissione Mario riceverà un diniego (consideriamo pure che l’esito della commissione dopo l’audizione non è immediato), avrà comunque diritto al ricorso in tribunale e a mantenere il diritto all’accoglienza (e al permesso di soggiorno per richiesta asilo) fino alla fine del procedimento. In soldoni, dalla prima richiesta di asilo al riconoscimento di uno status o del diniego definitivo possono passare anche parecchi mesi, a volte anni.

Non ho omesso tutta questa melassa burocratica, un po’ noiosa, mi rendo conto, per far capire sia le tempistiche sia la complessità della richiesta stessa.

Prima dunque di additare Mario con il più classico dei “A lavorare!”, bisognerebbe sapere che:

1) Un richiedente asilo non può avere accesso al mercato del lavoro prima dei due mesi dalla presentazione della domanda. E molto spesso un datore di lavoro non riconosce il solo cedolino come documento valido (e invece lo è a tutti gli effetti). Senza considerare poi che pochi sono disposti ad assumere qualcuno dal destino incerto, a meno di sfruttarlo per il tempo strettamente necessario a lavori usuranti e mal pagati. Si tenga anche presente che il permesso di soggiorno per richiesta asilo non può essere convertito in un permesso di soggiorno per motivi di lavoro. Un richiedente asilo non ha altra possibilità che attendere l’esito della procedura.

2) Per poter comunque accedere al mercato del lavoro è necessaria una discreta conoscenza della lingua italiana (tutti gli sportelli di orientamento al lavoro rimandano indietro i richiedenti che non hanno un’adeguata conoscenza della lingua). Dunque Mario dovrà approfittare della sua permanenza al centro per imparare la lingua. Una struttura di accoglienza, da bando, dovrebbe assumere un insegnante specializzato che garantisca almeno otto ore di lezione a settimana a beneficiario (prima della legge Minniti le ore erano dieci). Ma molte cooperative preferiscono andare a risparmio e inviare gli ospiti presso le tante scuole del territorio gestite da volontari (ma un conto è avere un insegnante dedicato e specializzato, un conto affidarsi esclusivamente alle tante scuole del territorio gestite da volontari, che pure sono importantissime) o iscrivendoli direttamente presso un Cpia (Centri provinciali per l’istruzione per gli adulti che però inglobano anche i minori stranieri non accompagnati dai sedici anni in su), che molto spesso sono impreparati a gestire le problematiche connesse ai differenti percorsi migratori. La scuola sarà il tema del prossimo articolo.

3) Il periodo presso il centro di accoglienza è necessario al richiedente per preparare al meglio l’audizione in commissione. Già abbiamo parlato nel precedente articolo dell’importanza dell’operatore legale, colui o colei che dovrà guidare il richiedente nella preparazione della storia e della documentazione a supporto della stessa. Molto spesso, come già evidenziato, ci vogliono mesi per far emergere tutti gli aspetti traumatologici legati al viaggio o a persecuzioni e torture subite.

Non possiamo dunque considerare Mario come un parassita che ciondola dalla mattina alla sera mantenuto dalle nostre tasse. No, Mario ha avviato una procedura delicata che comporta una serie di appuntamenti sanitari e burocratici, una formazione linguistica (molto complessa e lunga se Mario è analfabeta) e la pressione psicologica di un destino incerto. E l’instabilità sulla possibilità di rimanere o meno in un paese in cui ricostruirsi può essere piuttosto lacerante e prosciugare la motivazione. Per questo motivo il centro dovrebbe anche garantire il diritto al tempo libero e allo svago. L’idea che un immigrato debba essere considerato solo in funzione lavorativa è una consuetudine disumana. Dunque non è affatto uno scandalo, anzi dovrebbe essere una buona prassi, se gli operatori di un centro di accoglienza organizzano anche attività sportive e ricreative (in genere c’è un operatore addetto).

Una buona accoglienza, per essere tale, deve essere ben gestita. I casi di mala gestione sono da condannare. Ma ci sono anche tante strutture virtuose, delle quali non si ha mai notizia, che hanno saputo costruire un legame col territorio sano e benefico. Bisognerebbe partire da quelle.

Il nostro consiglio è, laddove vi è possibile, entrate all’interno di un centro di accoglienza, parlate con chi ci abita, ascoltate le loro storie: il modo migliore per mettere a tacere le tante, troppe inesattezze che si sentono in giro.