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Perché “Baby” è meglio di come è stata descritta

Qualche riflessione sulla seconda serie italiana di Netflix

di Daria De Pascale / 11 gennaio

Di Baby, la seconda serie italiana prodotta da Netflix e disponibile sulla piattaforma il 30 novembre, si è già detto molto. Ha diviso in fazioni, scatenato discussioni, e ha anche riacceso il sempreverde spirito di autodistruzione all’italiana per il quale tutto ciò che è fatto in Italia è automaticamente da buttare – piuttosto diffuso tra gli appassionati di serie tv – mentre opere di livello decisamente più basso vengono descritte come geniali, o come capolavori, solo perché prodotte in America. 

Non che Baby sia un capolavoro.

Soffre di due errori di base che la sviliscono in modo inutile e la espongono – purtroppo a ragione – alle critiche dei peggiori americanofili. Da una parte è ambientata «nel quartiere più bello di Roma», i Parioli, ma i ragazzi frequentano un liceo, il Collodi, che salta all’occhio subito per il suo aspetto da liceo americano, con tanto di divise blu, corridoio con gli armadietti e grandi campi sportivi. Eppure le nostre scuole per ricchi non sono mai state così: ci sono i licei statali storici, frequentati da un certo tipo di borghesia, spesso politicamente orientati; e ci sono le scuole paritarie – le scuole delle suore – che grandi traumi hanno inflitto ai borghesi di tutta Italia. E poi ci sono le scuole americane, d’accordo: ma il Collodi di americano ha solo l’abito, e la sensazione di scimmiottamento è inevitabile.
Quanto diverso sarebbe stata la storia di Baby, se gli stessi personaggi fossero stati inseriti in un contesto più reale? E quanto ci avrebbe però guadagnato in serietà e coerenza? 

Dall’altra, è ridicolo anche collocare l’outsider della storia, Damiano, ragazzo del Quarticciolo trapiantato ai Parioli dopo la morte della madre, a vivere con il padre diplomatico, fino a quel momento inesistente, all’interno di un’ambasciata. Ha qualcosa di falso, di incoerente rispetto alla realtà ma anche a tutti i personaggi in causa – una scelta di comodo che consente agli autori di produrre facili scene da ragazzo ribelle maltrattato, ma che fa perdere credibilità a tutta la situazione. 

Sono scelte che fanno sorridere sin dall’inizio, ma che soprattutto aprono la strada a critiche meno giuste. È vero che non tutti gli attori sono eccezionali, e a volte gli autori scivolano in stereotipi facili sui Parioli – che tuttavia potrebbero in alcuni casi corrispondere a verità, e forse proprio questo ha provocato reazioni piccate da parte di chi a quel mondo appartiene, e non può guardarsi dall’esterno. 

La critica più insensata che è stata mossa verso la serie è però quella di non mantenere le promesse. Nominalmente, Baby è ispirato alla vicenda delle baby-squillo dei Parioli, e se ciò che si cerca nella serie è la prostituzione minorile in senso stretto – il sano tema engagé senza cui sembra che niente sia degno di essere prodotto né guardato – se ne troverà in effetti poca (almeno nella prima stagione). Si tratta però di una scelta cosciente, e ben pensata. 

Baby è, e non vuole essere altro che una seria storia di adolescenti. È calata in un tempo e in un luogo preciso, come è giusto che sia per non rischiare di risultare troppo vaga, ma non sembra davvero voler rappresentare, né denunciare nulla, se non un pezzo difficile e doloroso della vita di un gruppo di ragazzi – e soprattutto di ragazze.
E questo lo fa in realtà piuttosto bene. 

Chiara e Ludovica, così come Damiano e gli altri studenti del Collodi sono adolescenti che si ritrovano in vari modi a trasgredire le regole, in alcuni casi mettendosi in situazioni di vero pericolo, ma si tratta sempre di ragazzi tutto sommato per bene. Compiono scelte discutibili, si fanno del male e fanno del male agli altri in alcuni casi per attirare l’attenzione – non tanto dei genitori, distanti e spesso distruttivi, quanto dei coetanei, il vero centro del loro mondo – ma anche, soprattutto, per sentirsi vivi.

È proprio questo a rendere interessante Baby e i suoi personaggi, la sua migliore intuizione: ciò che incombe su tutti loro, che guida le loro scelte e le loro azioni, è una ricerca di libertà, di amore, e al contempo un vago senso di morte, è un cercare altrove la vita che in casa, a scuola, nella piattezza della vita di tutti i giorni non riescono a trovare. Un sentimento proprio dell’adolescenza, che va oltre lo status sociale e le scelte di vita personali, e che gli autori hanno avuto la sensibilità per cogliere: nell’assurda leggerezza con cui Ludovica compie una attraente autodistruzione; nel modo in cui Chiara ne è contagiata e lascia indietro la propria vita quotidiana per seguirla; nella rabbiosa sofferenza di Damiano e nei modi in cui reagisce ai torti subiti. 

Di più. Ciò che Baby prova a compiere è una reale immedesimazione dell’adolescenza com’è oggi – non così diversa in fondo, se non nei mezzi e nelle possibilità, da com’è stata ieri. Prova ne è il modo fresco e naturale in cui la musica, Whatsapp, le storie di Instagram appaiono nella serie, non come decorazione ma come parte integrante delle vite dei personaggi – così come le parole scritte, le fotografie pubblicate, l’immagine che si dà di sé plasmano la vita interiore e i rapporti degli adolescenti di oggi. Ma anche una scena, che appare abbastanza presto nella serie, in cui Chiara non sa come calmare un Damiano seduto disperato in mezzo alla strada, e allora comincia, dal nulla, a cantare «Che super taglio di capelli che hai, potresti vincere tutto».  Ed è terribile, e fa ridere – e però è serissima, ed è un modo credibile in cui una ragazza del liceo potrebbe pensare di consolare qualcuno che considera amico e che vede soffrire: distraendolo, facendolo ridere. Cantando, precisamente.  

Quello che ha fatto così arrabbiare di Baby è forse che lo sguardo verso le vicende in scena non è quello di un adulto: non c’è un intento esplicitamente pedagogico. Baby non cerca di spiegare ai ragazzi il bene e il male, cosa è giusto e cosa è sbagliato fare – esattamente ciò che scatena il rifiuto di qualunque adolescente. Cerca invece di raccontarli, di guardare il mondo attraverso i loro occhi, di descrivere i loro modelli e la loro idea di grande e di trasgressivo, come opposto a un mondo adulto sentito come stretto e limitato. E non risparmia di mostrare la bruttezza dei mondi oscuri in cui rischiano di immergersi, ma anche la loro attrattiva, e le ragioni che li portano a ricercare quei mondi, l’occhio lucidissimo con cui osservano e giudicano l’ipocrisia, l’immaturità di chi dovrebbe insegnare loro a vivere. 

Baby coglie tutta la carica di energia, la voglia di scoprire, di innamorarsi, di sbagliare e scoprire i propri limiti dei ragazzi di 15 anni, e lo fa bene, dal loro punto di vista, senza filtri né falsi pudori, senza temere di rappresentare o di offendere qualcuno.
Per questa ragione, al di là dei suoi limiti, è qualcosa di nuovo rispetto al passato.  Ed è anche molto meglio di com’è stata descritta.