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Libri

Le intenzioni fallite

Perché “M. Il figlio del secolo” di Antonio Scurati non è il libro di cui Scurati parla.

di Gabriele Sabatini / 4 febbraio

«Nella parte che ho letto fino adesso, sono più o meno a metà, il Mussolini che viene fuori è un Mussolini più intrigante di come io l’avevo sempre vissuto». Sono le parole dette dal conduttore radiofonico Linus durante un fuori onda di Deejay chiama Italia, popolare programma che ha ospitato Antonio Scurati lo scorso ottobre. Si può partire da qui, per parlare di M. Il figlio del secolo, perché questo è un libro che parla anche di popolo e che, secondo le intenzioni molto spesso espresse dal suo autore (e cioè che occorra spiegare – soprattutto ai giovani – cosa sia stato il fascismo), parla al popolo.

Perché partire da Linus? Perché è il conduttore di una delle trasmissioni radiofoniche più seguite d’Italia; ha sempre lavorato come dj e speaker, dirigendo anche alcune emittenti; ha pubblicato alcuni libri con Sperling & Kupfer e Mondadori. Insomma, non è il prototipo del – se esiste – italiano medio. Linus è anzi (mi si passi il termine, altrimenti è impossibile intendersi) un cittadino qualificato. Ebbene, arrivato al cuore del libro, gli sembra che il Mussolini di Scurati sia un personaggio più intrigante del Mussolini che si era sempre immaginato.

 

Le intenzioni dell’autore

Scurati si è proposto di scrivere un romanzo su Mussolini adottando il punto di vista dei fascisti (peraltro non è propriamente il primo autore a interessarsi del loro punto di vista, basti ricordare le molte voci che proprio per questo furono critiche con i libri di Renzo De Felice). M sarebbe un romanzo così tanto documentato da consentire all’autore di dichiarare: «Ogni singolo accadimento, personaggio, dialogo o discorso qui narrato è storicamente documentato e/o autorevolmente testimoniato».

Le ragioni di questa sua impresa, Scurati le chiarisce in quasi tutte le occasioni in cui è invitato a parlarne, come per esempio ha fatto rilasciando un’intervista a Fahrenheit Radio 3: «È caduta la pregiudiziale antifascista. Vale a dire che l’antifascismo su cui è fondata la Repubblica italiana si è fondato fino a ieri sulla pregiudiziale. Se tu volevi accedere al dibattito pubblico, al discorso politico, al discorso civile dovevi accettare la pregiudiziale antifascista; cioè la condizione preliminare era che tu ti dichiarassi antifascista. Sennò eri ai margini, eri emarginato. Oggi non è più così. Oggi le scuole sono piene di ragazzi, di militanti, […] dei movimenti neofascisti o di estrema destra ai quali se tu dici che il fascismo è un male, loro ti dicono: “Perché? Dimostramelo.” E questo è il motivo per cui finalmente si può e si deve raccontare veramente cosa sia stato Mussolini e il fascismo senza pregiudiziale ideologica, senza pregiudiziale politica. Nella speranza e nella convinzione (che è la mia) che alla fine di una narrazione (che è equanime – diciamo così – come quella che è sempre della letteratura) la condanna del fascismo giunga ancora più netta».

 

Il punto di vista equanime

Che la letteratura abbia un punto di vista equanime, l’autore di M. Il figlio del secolo lo sostiene anche come ospite della trasmissione Quante Storie condotta da Corrado Augias. È un concetto attorno al quale si potrebbe ragionare con interesse, non fosse che dal modo in cui Scurati lo espone sembra che l’equanimità sia un attributo esclusivo della letteratura e del romanziere: «Questo è il momento della letteratura, di raccontare in maniera equanime – che non significa indifferente ed equipollente – e di entrare nella testa di Mussolini, di entrare nel suo punto di vista, di raccontare il fascismo attraverso i fascisti».

Perciò a nulla varrebbero quelle molte volte in cui Emilio Gentile (esperto di fascismo di fama internazionale) in contesti di divulgazione storica ricorda vibratamente che i protagonisti delle vicende del passato non sapevano come le cose sarebbero andate a finire, e che pertanto le loro azioni, i loro pensieri e sentimenti, non possono essere giudicati col senno di poi ma occorre cercare di capire cosa essi sapevano, vedevano, e quali fossero le categorie con cui loro guardavano il mondo. Concetti, questi, con cui le matricole dei corsi di storia familiarizzano sin dalla prima ora di lezione e che concorrono appunto a quel tentativo di entrare nella testa di chi ha vissuto in altre epoche, senza nulla togliere – in tema di letteratura e storia – a libri come Guerra e pace; a film come Una giornata particolare, che anzi restano fondamentali per qualsiasi storico o appassionato.

 

 

Italiani brava gente

La pregiudiziale antifascista è superata, sostiene Scurati. E qui bisogna cercare di capire come. Sempre Scurati ama citare spesso (lo fa parlando di questo suo libro; l’ha fatto in passato scrivendo di Il male oscuro di Giuseppe Berto) una frase di Guido Ceronetti comparsa in un articolo del 1983: «Sembra lontanissimo, eppure la distanza è ancora poca per pensare Mussolini senza fallire: lasciamo venire il 1999, se verrà». Ebbene, cos’è il 1999 di Ceronetti? Non forse quella presa di coscienza delle colpe di un popolo, la loro elaborazione, lo sforzo di una comunità di farsi carico di responsabilità storiche? E cos’è invece oggi il superamento della pregiudiziale se non l’accoglienza – senza espiazione – nel dibattito pubblico dei fascisti? Cos’è se non l’accettazione che il fascismo sia un’opinione, ossia una fede politica come le altre anziché «l’antitesi delle fedi politiche», per dirla con Sandro Pertini?

Il 1999, che Scurati proclama giunto, non è ancora arrivato e un ragazzo che oggi chieda che gli venga spiegato perché il fascismo sia un male, non lo fa per equanime bisogno di conoscere come siano andati i fatti; molto più probabilmente lo chiede perché nella sua memoria famigliare l’oppressione dell’avversario, la soppressione delle sue libertà politiche e civili, la violenza costante contro di lui, il controllo pervasivo della polizia, l’impossibilità di lasciargli esprimere liberamente le proprie idee sono cose che vengono descritte in un modo tale da renderle tollerabili e finanche opportune. Lo chiede perché probabilmente pensa o crede di pensare che tutto sommato le colpe del fascismo possano ridursi all’aver portato l’Italia in guerra e aver promulgato le leggi razziali.

«Un paese che da quarant’anni va coprendo tutti gli specchi per dimenticare la sua vera faccia. – Scriveva Vitaliano Brancati nell’immediato dopoguerra – In questo modo le più gravi esperienze non servono a nulla, il tempo perduto si torna a perderlo, e il piacere di ricadere in un vecchio peccato è più dolce di ogni redenzione».

 

Fascismi di ieri e di oggi

È solito, Scurati, nelle interviste, specificare giustamente che le similitudini dei nostri tempi con il Ventennio non riguardano tale o talaltro politico portatore di idee autoritarie ed escludenti, ma che se è possibile rintracciare delle analogie con gli anni in cui emerse il fascismo, esse sono in noi e tutto attorno a noi. Non nei leader, ma nella folla: è il popolo di oggi a esser simile per insoddisfazione, rabbia, senso di tradimento e sconforto a quello del 1922. Siamo noi a coltivare quei sentimenti che potrebbero portare a una nuova dittatura, che non si presenterà col fez e il manganello – non importano le forme che potrebbe assumere – ma potrebbe arrivare, perché acclamata.

E cosa intende Scurati dare in pasto a questo popolo che sembra dirigersi sull’orlo del baratro? Ha, questo nostro popolo l’attrezzatura o – per dirla meglio – la cultura per interpretare e comprendere e non lasciarsi trarre in inganno dal punto di vista dei fascisti che viene adottato in M. Il figlio del secolo? O non è piuttosto molto più probabile che la reazione di un lettore non avvezzo agli scritti di Renzo De Felice, Emilio Gentile, Mario Isnenghi, Claudio Pavone – per citarne solo alcuni – possa essere quella di rafforzare un’idea vaga ma vitale di un passato fascista tutto sommato tollerabile nelle nostre coscienze?

Il giornalista Antonio D’Orrico, per esempio, sa a quale pubblico si sta rivolgendo mentre recensisce M su 7. Corriere della Sera, e sa che i suoi lettori possono non conoscere gli attori della storia, visto che sente il bisogno di spiegare chi sia stato e quale sorte abbia trovato Giacomo Matteotti. Sono righe sconfortanti, perché chiunque abbia ritenuto utile quella spiegazione farebbe bene a ripartire dal manuale scolastico, prima di leggere M.

 

Narratore e lettore

Per meglio orientare i lettori, Scurati inserisce al termine del volume le note biografiche dei personaggi principali, ma persino quelle possono trarre in inganno. Esse non solo si limitano all’arco temporale trattato nel romanzo (la biografia di Pietro Nenni, per esempio, si ferma al suo allontanamento dal fascismo poco dopo averne fondato la sezione bolognese), ma assumono il punto di vista dei fascisti. Probabile che siano state scritte con lo spirito di chi spiega brevemente i personaggi del romanzo, ma in un libro come questo, in cui l’eco e la responsabilità della storia si respirano a ogni capitolo, non possono – anche le note biografiche – essere intese come parte della narrazione. Così si presentano le voci di Matteotti e di Amerigo Dùmini, che fu tra i suoi assassini:

«Matteotti Giacomo: Figlio di un grande proprietario terriero sospettato di prestare denaro a usura, sposa fin dalla gioventù la causa dei contadini polesani – tra i più poveri d’Italia – affamati da suo padre. Colto, battagliero, intransigente, eletto in Parlamento nel dicembre del 1919, è venerato dai contadini della sua terra e odiato dai membri della sua classe che lo soprannominano “il socialista impellicciato”».

«Dùmini Amerigo: Figlio di emigranti, cittadino statunitense, si arruola volontario nella Compagnia della morte del maggiore Baseggio. Ferito, mutilato, decorato al valore, nel dopoguerra s’iscrive alla Alleanza di difesa cittadina in funzione antibolscevica ed è tra i fondatori del Fascio di Firenze».

Su Matteotti, lo sguardo equanime di Scurati si posa con costante giudizio. Giudizio che non arriva dai fascisti personaggi del romanzo, ma dal narratore stesso. Sono piccoli ma lampanti indizi abilmente disposti dallo scrittore. Persino le due voci biografiche descritte sopra possono fungere da esempio: Matteotti è figlio di un ricco forse avvezzo all’usura, Dùmini è un volontario decorato al valore figlio di migranti. Non si tratta di giudizi espliciti, sono anzi dati di fatto, ma disposti in tal modo offrono delle suggestioni.

In questo Scurati è sistematico, costruisce ogni capitolo non solo mostrando il punto di vista fascista, ma coinvolgendo, catturando, il lettore in esso. Ancora un esempio: se non volesse pilotare il giudizio di chi legge, Scurati non aprirebbe così il capitolo dedicato al congresso socialista di Livorno (da cui nascerà il Partito comunista): «Il XVII congresso del Partito socialista italiano è stato inaugurato a Livorno – meta turistica rinomata per i suoi pregiati stabilimenti balneari e termali – alle ore 14:00 del 5 gennaio 1921». Se non volesse pilotare il giudizio di chi legge, Scurati non darebbe la sensazione che i delegati socialisti avrebbero potuto mellifluamente immergersi nelle acque termali e passeggiare sul lungomare fra un lavoro congressuale e l’altro. Se non avesse voluto pilotare il giudizio di chi legge, non avrebbe scritto un primo formidabile capitolo in cui Mussolini parla in prima persona e sente lo spirito del tempo.

Oppure non avrebbe voluto, ma la cosa gli è sfuggita di mano.

 

Storico non di professione

«Fatti e personaggi di questo romanzo documentario non sono frutto della fantasia dell’autore. Al contrario, ogni singolo accadimento, personaggio, dialogo o discorso qui narrato è storicamente documentato e/o autorevolmente testimoniato», si legge alla pagina del colophon, e non ci sono dubbi che il libro sia sostenuto da una ingente messe di documenti. E però – gli storici lo sanno fin troppo bene – le fonti di chi indaga il passato spesso non chiariscono tutto. Per esempio – e si è costretti ancora a guardare verso Matteotti – non è storiograficamente chiaro se l’ordine di eliminarlo sia stato impartito direttamente dal Duce, o da Giovanni Marinelli, suo collaboratore, o che non vi sia stato nessun ordine di omicidio e il delitto sia stato commesso per errore. Esistono storiograficamente forti indizi che farebbero propendere per una di queste tre possibilità, ma non si possono escludere le altre. Scurati invece non ha dubbi: indica una teoria e delle altre non fornisce nemmeno un cenno. Con beata pace dell’equanimità.

 

 

Uno dei temi che spesso l’autore usa nelle interviste, per gettare discredito sui fascisti e amplificare così il racconto del suo libro come libro antifascista, è quello del rapporto fra Mussolini e le donne. Sul sito della casa editrice Bompiani sono disponibili alcuni video in cui l’autore presenta i temi del romanzo: «L’erotismo dei fascisti è una sorta di autoerotismo […]. Ce lo rivela lo stesso Mussolini in un suo appunto autobiografico […]: “Nessuna donna potrà mai dirsi soddisfatta dell’intimità con il sottoscritto, perché io pochi istanti dopo averla goduta vengo irresistibilmente attratto dalla visione del mio cappello”». Con questo il futuro dittatore vorrebbe descrivere il suo «impulso ad abbandonare la stanza» subito dopo l’amplesso, dimostrando così una sessualità rapace, irriguardosa nei confronti delle donne. Ma questo, più che al fascismo, attiene allo spirito dell’epoca, e cioè a un tempo in cui la strada verso la condivisione nella sessualità doveva ancora essere tracciata sulle mappe: «La consapevolezza, l’acquisizione a livello largamente comune che il rapporto deve essere bilanciato tra le due parti è una cosa che risale agli ultimi decenni del Novecento», replica Corrado Augias al racconto di questo stesso aneddoto durante la sua intervista a Scurati.

 

Induce in tranelli, il narratore di Scurati, quando viene il momento di raccontare il ricevimento della cittadinanza onoraria di Roma da parte di Mussolini: «Il Duce parla ispirato dall’onore più alto. Fin da ragazzo – rivela Mussolini – Roma è stata immensa nel suo spirito che si affacciava alla vita». Mussolini rivela: non proclama, non mente, non inventa. Eppure sembra difficile che il giovane Benito, figlio del fabbro Alessandro e della maestra Rosa; che il giovane socialista avesse una opinione così alta della capitale, e infatti nel 1910 scriveva: «Roma, città parassitaria di affittacamere, di lustrascarpe, di prostitute, di preti e burocrati. Roma, città senza proletariato degno di questo nome, non è il centro della vita politica nazionale, ma sibbene il focolare d’infezione della vita politica nazionale. Basta, dunque, con questo stupido pregiudizio unitario per cui tutto deve essere concentrato a Roma, in questa enorme città vampiro, che succhia il miglior sangue della nazione».

Sono questi alcuni esempi di come l’autore ha inteso maneggiare la materia storica, esempi che si sommano agli errori rilevati da Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera o da Nunzio Dell’Erba in una lettera a Dagospia.

Vi sono poi brani su cui ci si potrebbe arrovellare a lungo (uno di questi si presenta già alla quinta riga del libro, in quel primo capitolo in cui Mussolini parla in prima persona): «Aspettano che io parli ma io non ho nulla da dire. La scena è vuota, alluvionata da undici milioni di cadaveri, una marea di corpi – ridotti a poltiglia, liquefatti – montata dalle trincee del Carso, dell’Ortigara, dell’Isonzo. I nostri eroi sono già stati uccisi o lo saranno. Li amiamo fino all’ultimo, senza distinzioni. Sediamo sul mucchio sacro dei morti». Mussolini si riferisce senz’altro ai morti italiani, ma come può dire undici milioni, corrispondenti a quasi un terzo della popolazione italiana del tempo? Potrebbe allora riferirsi a tutti i soldati caduti degli eserciti coinvolti, ma la guerra era finita da pochi mesi, quante sono le possibilità che il 23 marzo 1919, un uomo che sta per rivolgere il suo discorso a ex combattenti, dei quali vuol farsi leader, si preoccupi di amare anche i morti austroungarici? E comunque, quel numero, Mussolini, come poteva conoscerlo se ancora non esistevano stime plausibili? Svista redazionale, si dirà.

 

Per concludere

È questo un libro che si può leggere solo avendo già gli anticorpi antifascisti, altrimenti il rischio è quello di sottovalutare Mussolini. O di rimanerne infettati. E affascinati dalla reazione, dalla domestica placida sicurezza – decorosa e ordinata – che lo stato autoritario può trasmettere. E anche per questo sarà maggiormente ardito il compito di chi ne realizzerà la annunciata serie televisiva (la casa di produzione Wildside ha già acquisito i diritti).

L’augurio, ovviamente, è che tutti questi dubbi siano fugati dalle prossime prove, perché Scurati ha già dichiarato di voler raccontare la vicenda fascista, e con essa quella nazionale, sino a piazzale Loreto. Mi sembra però che ci sia una unica via (ed è forse è possibile rintracciarne alcuni indizi nella seconda parte di M. Il figlio del secolo): quella cioè di disegnare un’opera in tre volumi che parta da una iniziale fascinazione verso il fascismo, sino all’episodio che gli fu quasi fatale (l’omicidio Matteotti, appunto); che prosegua raccontando l’affermazione del regime sino alla proclamazione dell’Impero (momento di massima sintonia fra il dittatore e la folla); che si concluda con un libro carico di scetticismo, di critica e infine di aspra condanna e di lotta partigiana. Un percorso che sarebbe lo stesso intrapreso allora da molti italiani.

Potrebbe così dispiegarsi dinnanzi a noi una sorta di antropologia del fascismo. Ma se ne riparlerà, se cinque anni son serviti per dare alle stampe questo primo volume, fra un paio di lustri.