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Cinema

Un ritratto senza idee e senza ideali

Gianni Amelio inciampa su Bettino Craxi

di Francesco Vannutelli / 17 gennaio

Si fa davvero fatica a capire il senso di un film come Hammamet. Se vi aspettate un film politico, non lo troverete. Se vi aspettate una riabilitazione, scordatevela. Se vi aspettate una condanna, non ce n’è traccia. Se vi aspettate il racconto della fine di un’epoca rimarrete spiazzati da scelte opposte e incomprensibili.

Gianni Amelio produce, dirige e scrive (insieme ad Alberto Taraglio) questo racconto delle ultime settimane di vita di Bettino Craxi, segretario del Partito Socialista Italiano, presidente del consiglio tra il 1983 e il 1987 e protagonista nel bene e nel male della politica italiana, morto in Tunisia il 19 gennaio 2020 dove si era rifugiato per sottrarsi alla doppia condanna scattata come conseguenza della maxi inchiesta Mani pulite.

Il cinema d’autore italiano trova sempre materiale interessante nelle figure ambigue della politica italiana. Paolo Sorrentino ci ha costruito la celebrità internazionale con Giulio Andreotti e Il divo per poi azzopparsi da solo con Silvio Berlusconi e Loro. Amelio ha scelto Craxi, traditore secondo alcuni, martire secondo altri.

Hammamet  non racconta lo splendore dei successi internazionali, ma la decadenza della fine. Dopo l’ultimo congresso che lo conferma segretario con una maggioranza schiacciante, vediamo il presidente, come viene chiamato per tutto il film, in Tunisia, «alla fine del secolo scorso», come ci informa una didascalia. È invecchiato, malato, stanco. Vive in una villa con la moglie, la figlia e il nipote, circondato da militari armati. Una visita inaspettata lo spinge al confronto con il passato e la sua stessa identità.

Iniziamo a elencare le ambiguità di Hammamet, che non mancano. Partiamo dal protagonista, Pierfrancesco Favino. Dopo Il traditore infila una nuova, straordinaria, interpretazione, con una mimesi della voce e della postura di Craxi impressionante. Lo sostiene l’ottimo lavoro di Andrea Leanza e Federica Castelli che lo hanno trasformato nell’ex segretario del P.S.I. con estenuanti sessioni di trucco di cinque ore.

Favino diventa Craxi ma, e qui arriva il primo paradosso, non interpreta Craxi, o almeno non lo fa in maniera dichiarata. Non viene mai chiamato per nome, non vengono fornite coordinate precise, addirittura le persone intorno a lui hanno nomi diversi dalla realtà (la figlia Stefania diventa Anita). Ci si chiede che senso ha inserire un elemento di iper-realismo in un contesto di finzione straniante, perché lasciare sola questa statua di cera di Craxi circondata da personaggi che non hanno nessuna pretesa di adesione con il reale.

Questo senso di alienazione di Favino/Craxi aumenta quando lo confrontiamo con gli altri interpreti. C’è un contrasto brutale tra la grandezza del protagonista e la modestia di tutti gli altri, soprattutto i giovani Livia Rossi e Luca Filippi, cannibalizzati nella loro impostazione teatrale dalla naturalezza di Favino.

C’è poi il discorso politico, sul senso di raccontare la fine di un leader senza nominarlo. Amelio ha l’intelligenza di non entrare nel merito delle vicende giudiziarie (condanne complessive a più di dieci anni di carcere) e guardare solo al suo presidente, alla sua solitudine, al suo esilio (o piuttosto latitanza). Il ritratto che appare è quello di un leader abbandonato, allo stesso tempo capro espiatorio e responsabile per le colpe degli altri.

Ogni tanto, sembra che Hammamet voglia parlare dell’Italia più che di Craxi, ma anche qui senza sapere bene che strada percorrere tra rappresentazione e finzione. Compare Berlusconi, di sfuggita (unico politico reale), ma l’ex P.C.I. viene chiamato solo «il principale partito dell’opposizione». Non vengono fatti nomi, ma vengono mostrate facce. Perché?

Il difetto principale del film di Amelio è proprio questo: l’incertezza continua tra realismo e metafora che diventa mancanza di equilibrio e di identità.

Hammamet  non prende posizione e neanche la cerca. Vuole essere una grande riflessione sul senso della paternità – familiare, personale e politica – e mette insieme suggestioni in questa direzione per tutto il film, senza però riuscire a metterle davvero a frutto. In questo non lo aiuta una sceneggiatura che spalanca portoni senza neanche ricordarsi di guardarci dentro, con un personaggio che è co-protagonista della prima metà del film per poi sparire senza senso o motivo e ricomparire nei minuti finali con rivelazioni imbarazzanti.

Accompagnato dalla peggiore tra le «colonne sonore civili» di Nicola Piovani –invasiva, petulante e melensa –, Hammamet si perde in un finale onirico che inizia con la splendida immagine di Craxi scalzo a passeggio sul tetto del duomo e scivola in un varietà grottesco prima di sconfinare in una coda sull’infanzia e l’eredità che unisce ricordo e allucinazione senza soluzione di continuità. Come tutto il resto del film, sempre indeciso tra realtà e finzione.

(Hammamet, di Gianni Amelio, 2020, drammatico, 126’)

 

LA CRITICA - VOTO 5/10

Il voto non è più basso solo per l’ottima interpretazione di Favino. Per il resto, Hammamet incarna tutti i difetti del cinema d’autore italiano: cervellotico, sconclusionato, antiquato.