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Libri

Quello che viene dopo

A proposito di “Tutti i racconti” di Bernard Malamud

di Giuseppe Del Core / 28 gennaio

Dopo la ripubblicazione di Il commesso (2017), L’uomo di Kiev (2017), Gli inquilini (2018) e Il migliore (2019), prosegue il lavoro di recupero di Bernard Malamud da parte di Minimum Fax, che a ottobre del 2019 ha riunito in un unico cofanetto di due volumi tutti i racconti dello scrittore americano. Il progetto, a cui hanno preso parte cinque diversi traduttori, riordina cronologicamente i racconti (dal 1940 al 1985) e comprende, oltre a un dettagliato profilo bio-bibliografico dell’autore, una prefazione firmata da Emanuele Trevi.

Ogni discorso su Malamud, oggi, sembra dover passare necessariamente dal legame che questi ebbe in vita con Philip Roth, e più nello specifico dalladiatriba ebraica” che nacque tra i due a seguito di un saggio di Roth apparso nel 1974 sul New York Times. Le parole di Roth, autore più giovane e senz’altro più votato alla modernità, espressero un ammonimento che Malamud definì «un problema non mio», e l’episodio raffreddò quella che all’epoca era un’amicizia decennale.

Nonostante la riconciliazione – suggellata perfino da un bacio sulle labbra, come raccontò lo stesso Roth – questo precedente portò i due a non confrontarsi direttamente sulle proprie opere, edite o inedite che fossero. Nel 1985, ormai ridotto morente al proprio capezzale, Malamud chiese però a Roth di leggergli l’incipit di un romanzo che stava scrivendo, e quando questi gli domandò come continuasse quella storia, la sua risposta fu: «Non è importante quello che viene dopo». Questa frase, che suona come la replica stizzita di un vecchio malaticcio e prossimo a morire, contiene invero molta della poetica di Malamud, che trova nella sospensione del tempo uno degli elementi più essenziali alla sua riuscita.

Se Roth infatti attualizza la tematica ebraica – cambiandone lo sguardo, innovandone la forma – Malamud la universalizza. Questa scelta, che pure nasce da un pensiero elementare, modifica la conduzione della narrazione, che non può più limitarsi a essere un racconto, ma che deve farsi parabola – una parabola dell’Uomo. È chiaro che in questo senso le Sacre Scritture costituiscono il modello più eminente, ma Malamud riesce comunque a defilarsi, e lo fa con le sottigliezze proprie dei grandi autori. In “La dama del lago” (1958), per esempio, è l’empatia del narratore esterno che filtra attraverso un paio di annotazioni altrimenti pleonastiche: «Ahimè, queste parole cominciavano ormai a suonare un po’ comiche», o ancora, «gli innumerevoli ostacoli che sorgono fra stranieri, accidenti a questa parola».

Nello specifico, il racconto rappresenta una sorta d’inversione alla struttura classica di Malamud, che è solita poggiarsi su un incipit cupo e cronistico. Qui, invece, il protagonista ci viene presentato come un «trentenne bello e ambizioso», che sceglie di rinunciare alla propria identità di ebreo per costruirsene una fittizia. Il nome che il giovane prende, una volta arrivato a Parigi, è di immediata ricostruzione: Henry Freeman; quasi che possa servire al mondo come dichiarazione della propria libertà.

Il tentativo di Freeman, nato Levin, è quello di emanciparsi dalla propria eredità genetica, ma allo stesso modo è anche la possibilità di un riscatto tutto personale, una cesura netta tra prima e dopo. Questa divisione del tempo, che è un’operazione umana e quindi arbitraria, conferisce agli individui l’illusione di un potere che non possono scegliere. Di fatto, se pure ogni racconto evidenzia, più o meno segnatamente, la distanza tra ciò che siamo e ciò che potremmo essere, a dominare è sempre lo status quo. C’è di più: questa distanza alimenta un interrogativo primordiale – cosa siamo e cosa siamo destinati a essere. L’intera filosofia ebraica, tuttavia, scongiura il fatalismo e si fonda sul valore della responsabilità individuale, e in ogni racconto Malamud si allinea a questa credenza.

Esistono però tre “sguardi” interni a una storia – a ogni storia, al di là di Malamud – e raramente si trovano a coincidere: ci sono i personaggi, c’è il narratore e c’è, naturalmente, l’autore. Se il narratore, come detto, empatizza con il proprio personaggio, l’autore resta al di sopra delle parti e si caratterizza soprattutto per un’ironia semplicemente disarmante (per i lettori quanto per i personaggi). L’autore inventa la storia e ne architetta i risvolti di trama, e il narratore la racconta. Al termine di questa storia, Freeman, che ha avuto la possibilità di compiere il proprio riscatto e abbracciare l’amore, si ritrova ad abbracciare «solo la pietra rischiarata dalla luna» – e, anche se il racconto termina qui, è facile intuire che questo fallimento si tradurrà con un ritorno alle origini. È facile, ma appunto non è importante quello che viene dopo. Si tratta di qui e di adesso, perché può valere per sempre – e perché forse vale per sempre?

Alla base, come detto, c’è un pensiero elementare: se l’ebreo è (semplificando) un emarginato, allora può essere il modello dell’emarginazione. Se l’ebreo è un colpevole, allora può essere il modello della colpa e della colpevolezza. Ma i racconti di Malamud si prestano anche a una riflessione interna al discorso ebraico, quantomeno nella relazione che c’è tra dogma e libertà, tra fede e credenza, e soprattutto fra tradizione e apertura al nuovo. Come sottolineato dallo stesso Malamud, la diaspora degli ebrei ha fatto sì che questi si ritrovassero a vivere in ogni parte del mondo. Ne consegue che la tradizione ebraica ha finito – o finirà – di rispondere ai precetti con la rigidità di un tempo – che è un destino, questo, comune a tutte le religioni.

L’America è dunque il luogo ideale della mescolanza («un posto che non conosce il concetto di esclusione»), e seppure sopravvivono i ghetti, anche gli ebrei arrivano a confondersi agli americani, tanto da influenzarne la cultura. In questo senso la memoria assume il valore fondativo dell’identità di un popolo, ma è anche lo strumento di lettura a un percorso individuale (“quello che sono” rispetto a “quello che ero”) quanto collettivo (“quelli che siamo” rispetto a “quelli che eravamo”). Questo valore di memoria si traduce presto in una logorante idea di fedeltà – a noi stessi, anzitutto, e quindi a ciò che abbiamo amato, a ciò a cui siamo appartenuti – il cui tentativo di affrancamento sfocia sovente in un nulla di fatto. Ma anche questa fedeltà gioca su una contraddizione intestina tra ciò che vogliamo e ciò che siamo portati a fare, e così ogni personaggio è il soppressore di una propria tentazione, dell’enunciazione di una frase, del compimento di un gesto.

Malamud catalizza molte tematiche del Novecento, dalla frantumazione della verità all’incertezza della parola, ma lo fa sommessamente, attraverso una prosa limpida che svela le mancanze degli uomini e dei rapporti senza però urlarle, sbrogliando la complessità delle storie senza rinunciare alla virtù della penna (si legga in proposito lo strepitoso incipit di “I primi sette anni”, autentico capolavoro di introduzione alla storia, ai personaggi e ai loro legami).

Nonostante la sua popolarità sembri oggi in appanno, circoscritta soprattutto agli ambienti letterari e un po’ adombrata dalle altre figure, Malamud ricevette in vita numerosi riconoscimenti, ma anche più rilevanti furono gli attestati di stima che riscosse dai colleghi. Al di là degli lodi di Saul Bellow e dello stesso Philip Roth – che confessò che alcuni dei suoi racconti fossero tra i migliori di sempre – resta particolarmente significativo l’elogio di Flannery O’Connor, che ammise candidamente: «è più bravo di me». Ed è particolarmente significativo proprio perché Flannery O’Connor rimane forse insuperabile nella tecnica del racconto e perché con Malamud condivide lo stesso terreno di gioco – su cui, pure, i due scelgono di muoversi diversamente.

Se entrambi eccellono per la solidità strutturale e per la pulizia della frase, è innegabile che nella O’Connor è presente una maggiore varietà di simboli e di sottotesti, laddove, in Malamud, la decodifica appare invece più immediata. Questa immediatezza, vera o illusoria che sia, è data giocoforza dall’impronta parabolica che assumono le sue storie. Per approdarvi, Malamud opera un sensazionale lavoro di cesellatura del testo, che riduce ai propri elementi essenziali. L’operazione tuttavia non sottrae la ricchezza ai racconti, ma conferisce loro un ordine e una completezza che hanno pochi rivali nella storia della letteratura.

 

(Bernard Malamud, Tutti i racconti, trad. di Giovanni Garbellini, Igor Legati, Vincenzo Mantovani, Donata Mignone e Ida Omboni, Minimum Fax, 2019, pp. 1004, euro 30, articolo di Giuseppe Del Core)