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Libri

La proiezione del mondo che è dentro di noi

“Permafrost” di Eva Baltasar

di Chiara Gulino / 19 maggio

Permafrost di Eva Baltasar (Nottetempo, 2019) è un romanzo viscerale e riflessivo. Un estenuante flusso di coscienza, di pensieri e confessioni, segue il ritmo cantilenante di un “io narrante” emotivamente instabile e a tratti sproloquiante.

Con urgenza drammatica (Baltasar è una poetessa), in cui ricordi dolorosi e pensieri di morte trovano ampio spazio, l’autrice lavora sulla materia dell’umano esistere, sulle sue miserie e sulle sue rare meraviglie (dagli innamoramenti all’affetto per la piccola nipote).

In questo libro, Baltasar parla della sua vita, del suo essere una donna fragile e insicura, del suo essere fisiologicamente incompatibile con il mondo, del suo sentirsi esclusa da tutto e da tutti, specialmente per i suoi orientamenti sessuali. Con le donne di cui si innamora il contatto è ustionante, a volte drammatico, altre volte, nega sé stessa facendosi ombra con le sue amanti.

La protagonista, alter ego della scrittrice, ha sempre la sensazione di vivere fuori centro e fuori tempo: «A ventitré anni credi che sia troppo tardi per tutto. Solo a quaranta ti accorgi che sei ancora in tempo, se non proprio per tutto, almeno per quello che ti sta a cuore».

Eva è la rappresentante di una generazione che stenta a trovare il suo posto all’interno della attuale società liquida, dove tutto è destinato alla rapida obsolescenza, comprese le emozioni, e al tempo stesso ha un modo tutto suo di criticarla. La sua personale forma di protesta sarebbe, nelle sue intenzioni, boicottare la vita con il suicidio, il cui pensiero la sfiora a più riprese, ma la cui realizzazione è frenata, ora dal timore grottesco dei tragici esiti che il suo gesto potrebbe provocare (lanciandosi dal balcone, ad esempio, potrebbe schiacciare un gatto che, ignaro, si trovasse a passare in quel momento proprio lì sotto), ora dalle bizzarre giustificazioni e scuse che dà a se stessa per differirlo.
Ma per Eva morire, più che iniziare veramente a vivere, diventa un imperativo categorico: «Non che io voglia morire, io devo morire! È la mia certezza. La vita appartiene agli altri, l’ha sempre fatto.»

L’ironia diventa qui uno strumento di salvezza. Lo stile leggero e ironico con cui Baltasar mette in scena il suo “io” scorticato, provocatorio e diviso, è puntellato da battute caustiche, senza mai cedere ai toni cupi. Ne emerge un amaro fondo autobiografico, quello di un personaggio femminile disadattato e inquieto, risentito nei confronti della famiglia d’origine, in particolare della madre.

Per difendersi dalla durezza della realtà, quando si rende conto di star perdendo la propria anima, Eva frappone fra sé e gli altri una corazza, il permafrost del titolo, che la allontana dalle cose e dal coinvolgimento del mondo: «Il dubbio, la crepa attraverso cui si infila il calore del mondo, sfrontata violazione del permafrost.»

Al centro del romanzo ci sono la psicologia umana e un’idea tragica dell’esistenza come una costellazione di piccoli o grandi drammi quotidiani. La felicità è un lungo, rischioso e spesso infruttuoso viaggio alla ricerca di sé: «Nella mia persona abitano perennemente delle inquiline in fedecommesso: la figlia, la sorella, l’amica, l’ex studentessa universitaria, la vicina, la lettrice, la zia, la proprietaria, la cliente, l’utente, la persona sicura, quella insicura, ecc. Tutte queste barbare convivono e rivaleggiano con la lesbica che è in me».

Permafrost è la proiezione di una psiche allucinata ma anche della pluralità dei mondi che abitano dentro ciascuno di noi.

 

(Eva Baltasar, Permafrost, tra. di Amaranta Sbardella, Nottetempo, 2020, pp. 128, euro 16, articolo di Chiara Gulino)