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Il segno del reale sulla nostra pelle

“Essere senza casa” di Gianluca Didino

di Giovanni Bitetto / 9 luglio

In questi anni ci siamo abbeverati di saggi e teorie che spiegano le mutazioni economiche, sociali, culturali, cognitive del nuovo ipercapitalismo tecnologico. La riscoperta in chiave critica di Dick e Ballard, la divulgazione a più ampio raggio di Fisher, Reynolds, Srnicek, Williams ci ha fornito degli strumenti per leggere un reale complesso – non si tratta di fare name-dropping, ma di rendere conto di un certo milieu che si è posto come avanguardia critica del nostro tempo.

Al di là della teoria c’è però una riflessione da fare su come tali fenomeni influiscano sul nostro modo di vivere e ragionare sul piano soggettivo, quali siano le categorie e le figure del sapere che introiettiamo, spesso inconsciamente, nel nostro alfabeto cognitivo. Ci ha provato Simon Sellars con Ballardismo applicato, esempio riuscito di speculative fiction in cui – attraverso la storia fittizia di uno studioso di Ballard – si ricostruiscono le figure epistemiche che agiscono sul reale, quali lo specchio, il fantasma, la fascinazione per l’inorganico, il complotto come metafora ermeneutica.

Non è tanto diverso da ciò che nel Seicento, un’altra epoca di vuoti e cambiamenti, facevano Emanuele Tesauro nel Cannocchiale aristotelico o Torquato Accetto in Della dissimulazione onesta: ovvero ridiscutere lo statuto degli strumenti retorici e reali – in quel caso la metafora, la maschera e il ruolo culturale della corte – per adattarli a un nuovo paradigma epistemologico, e dunque definire l’estetica e l’ermeneutica del Barocco.

Detto così sembra molto più complicato di ciò che è, ma basta leggere Essere senza casa di Gianluca Didino (minimum fax, 2020) per rendersi conto di come alcuni automatismi culturali influiscano sulla vita di tutti i giorni. Il pregio di questo saggio risiede nella capacità di unire generale e particolare con naturalezza, grazie alla felice intuizione di desumere le forme ideologiche della contemporaneità proprio a partire dall’esperienza dell’autore. E proprio come da titolo Didino ci racconta del precariato cognitivo e materiale di chi, emigrato nella Londra in odor di Brexit, deve fare i conti con la difficile situazione abitativa della città.

Londra e l’Inghilterra – nonché il cortocircuito fra cultura anglosassone e italiana – costituiscono il fondale per le speculazioni dell’autore, che prende a pretesto la sua esperienza per raccontarci la mutazione degli spazi fisici e mentali nelle città occidentali, trasformate in hub del potere finanziario e piattaforme estrattive del lavoro immateriale, nuovi accumulatori di plusvalore nella geografia del platform capitalism e per questo tanto inospitali quanto gerarchizzate dal punto di vista socio-economico. Fra critica dei prodotti culturali – Fisher e Reynolds i numi tutelari – e flânerie urbana in stile Iain Sinclair, Didino ci restituisce un ritratto efficace di Londra che funge da sineddoche per descrivere i rapporti di produzione di una qualsiasi metropoli abitata dal cognitariato.

È solo il primo punto di un discorso che tocca gli ambiti più disparati, dal cinema alla televisione, dalla cronaca alla letteratura. Se la riflessione sulla città diviene una critica al rapporto fra soggetto contemporaneo e spazio, allo stesso modo l’autore rileva dal modo in cui fruiamo alcuni prodotti culturali un certo stravolgimento nella nostra percezione del tempo. La critica alla retromania della nostra epoca non è una novità: consumiamo l’estetica dei decenni passati tramite il feticcio, ne ricombiniamo i tratti fondamentali per creare ibridi ipercontemporanei, allo stesso modo attestiamo un impasse culturale nell’incapacità di formalizzare qualcosa di realmente nuovo, se non mediandolo con il fantasma di un passato che viene riciclato in maniera meccanica.

Ancora una volta Didino spiega il fenomeno con chiarezza, prelevando un ricordo personale; la citazione è lunga ma serve a mettere in luce il metodo argomentativo: «Nel 2007 mi ritrovai, a Torino, a una festa a tema anni Cinquanta. La sensazione era quella di essere entrati in Ritorno al futuro, con me e i miei amici nella parte di Michael J. Fox con il suo inadeguato gilet di piumino rosso. Come nel film di Robert Zemeckis si respirava un’atmosfera di tempi accumulati alla rinfusa. Il fatto che il nostro abbigliamento ricalcasse già mode vecchie di decenni, e nonostante questo sembrasse assurdamente futuribile in quel contesto di ossessiva riproduzione del passato, dava la strana sensazione di essere finiti in un mondo disfunzionale, un presente alternativo dove il tempo aveva smesso di scorrere nella giusta direzione. Nel locale affollato, dove la temperatura era di diverse decine di gradi più alta che nella fredda notte torinese, avevo avuto un’illuminazione degna di un romanzo di Burroughs: eravamo tutti culturalmente morti, spettri in una cultura spettrale. Non solo quei ragazzi e quelle ragazze che ballavano la stessa musica dei loro nonni se i loro nonni fossero nati a Memphis, ma anche noi con il nostro culto dei film di Sergio Leone e le pettinature da Robert Smith. Scoperchiando archivi sepolti nei meandri più nascosti di sottoculture dimenticate, internet non ci stava portando verso il futuro – che sembrava ogni giorno più vago e incerto – né serviva a restituire l’energia del passato – nonostante le Les Paul e i tuxedo l’accuratezza filologica era solo una forma di illusione, una elaborata scenografia – ma ci stava trascinando in un eterno e inquietante presente».

Grazie al contrappunto biografico l’autore riesce a produrre immagini in grado di spiegare chiaramente l’incidenza delle forme culturali nel nostro vissuto, e non solo. Nella parabola di Essere senza casa le riflessioni su spazio e tempo si incrociano nella costruzione di nuove categorie cognitive. Dal rapporto disturbato fra soggetto, spazio e tempo – disfunzionale in quanto mediato dai dogmi ideologici del capitale – nasce una riflessione su weird e eerie, lo strano, il bizzarro, il perturbante contemporaneo che già era stato oggetto di riflessione nell’opera omonima di Mark Fisher (nell’edizione italiana la postfazione è proprio di Didino).

Il sentimento del bizzarro, la percezione del fantasma insito nella nostra cultura, diviene lo strumento estetico e cognitivo con cui il soggetto contemporaneo perviene al controsenso di un cultura bloccata in un eterno presente. Si tratta di una prima presa di coscienza della vuota forma del nostro paesaggio culturale che occulta i rapporti di forza socio-economici, e weird e eerie sono strumenti, più che vere e proprie categorie semiotiche, con cui saggiare la forma onnicomprensiva che ha assunto lo Spettacolo di debordiana memoria nell’era tardocapitalista. Proprio come la metafora, tornando alla nota iniziale, era lo strumento ermeneutico dell’epoca barocca.

Questo è solo un percorso di lettura fra i molti che predispone il ventaglio discorsivo di Essere senza casa. Si tratta di un’utile cassetta degli attrezzi in cui il lettore accorto può prelevare i simboli adatti a discernere il reale, giacché ogni aspetto preso in esame dall’autore prevede il nitore della sintesi, segno della profonda riflessione che c’è a monte. Ecco che ci ritroviamo ad avere un alfabeto preciso per esprimere l’abisso psichico e materiale di cui fa esperienza il cittadino dell’Occidente globalizzato. D’altronde, a proposito di case, io stesso scrivo questo articolo in procinto di lasciare il nono appartamento in nove anni, nella quarta città in cui ho vissuto, e chissà se sarò già a disfare le valigie nel decimo quando questo pezzo verrà pubblicato.

 

(Gianluca Didino, Essere senza casa, minimum fax, 2020, 172 pp., euro 15, articolo di Giovanni Bitetto)