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Libri

Identità sospese

“Sedici parole” di Nava Ebrahimi

di Francesca Gosi / 24 dicembre

Le parole possono contenere una storia personale, raccontare una cultura, dare corpo e significato alle nostre origini. È proprio attraverso Sedici parole (Keller, 2020), che fa da titolo al suo romanzo d’esordio, che Nava Ebrahimi ci racconta la storia di Mona Nezemi, una ragazza alla ricerca della propria identità, sospesa fra due mondi.

Mona vive a Colonia e fa la ghostwriter di autobiografie. Si è trasferita lì insieme alla madre quando era piccola, ma il suo nome, che in persiano significa “desiderio”, appartiene all’Iran. Verso la propria terra d’origine la protagonista prova un insolubile sentimento di attrazione e repulsione: le sue radici appartengono a quel mondo, ma la sua vita si è dispiegata altrove, in Germania, dove respira una cultura che non sente sua, se non per adozione. È come se la protagonista si sentisse sospesa tra due vite, due orizzonti di significato differenti che riflettono due versioni della sua persona, e non sapesse in quale delle due riconoscersi e (ri)trovarsi.

Mona conserva qualcosa di iraniano, «un certo tipo di riserbo, di pudore, un’incapacità di fare o dire apertamente certe cose», particolari che in Germania avevano attribuito alla sua personalità. Allo stesso tempo, è proprio in Iran che si sente tedesca come in nessun altro luogo, e vive lo scollamento da una realtà che sente sua solo come ricordo lontano, come radice estirpata. Questo genera in lei un’insanabile scissione, che produce continue scosse emotive e la fa sentire fuori luogo sia nella propria patria sia nel nuovo paese che l’ha accolta. Forse il suo posto è a metà strada, «da qualche parte nello spazio aereo tra l’Iran e la Germania», quel non-luogo nel quale si sedimentano gli interrogativi irrisolti e dove i sentimenti si perdono.

Mona si vede costretta a fare ritorno a Teheran, insieme alla madre, quando le arriva la notizia della morte di maman borzog, la nonna eccentrica e sboccata, «che soffiava tutto fuori come una macchina del vento» e che nei disegni di quando era bambina veniva raffigurata come la colonna portante della famiglia. Questo infelice evento sarà occasione, per Mona, di riprendere contatto con il proprio passato familiare, fatto di ombre, silenzi enigmatici, menzogne e verità taciute, che si schiuderanno lentamente, capitolo dopo capitolo, attraverso continui flashback.

Mona respirerà di nuovo i profumi della sua terra natia, che contiene «note di tabacco, fieno greco e pistacchi», lo stesso odore che sprigionava dalla valigia della nonna quando veniva a farle visita a Colonia; riprenderà contatto con il ricordo doloroso di un padre assente, mosso da ideali rivoluzionari e troppo parsimonioso di sentimenti e parole; guarderà dal finestrino della macchina i paesaggi dell’Iran che raccolgono i segni di una storia fatta di dolore: una terra attraversata da una rivoluzione, che ha visto degli ideali accartocciarsi su loro stessi, e che ora sembra inerme, silenziosa, come se il tempo non fosse mai trascorso. Incontrerà di nuovo Ramin, col quale ha intrattenuto per anni un rapporto che ha fatto dell’incompiutezza la propria cifra unica e irripetibile: un rapporto che si nutre di impossibilità, e che Mona cerca ogni volta di allontanare perché le provoca una felicità dolorosa, che la fa sentire scoperta. Ramin, come l’Iran, suscita in lei un doppio sentimento: senso di appartenenza e autoimposto distacco, un conflitto che resta incompiuto, un po’ per contingenze, un po’ per volontà. Mona, infatti, desidera solo essere «una piccola innamorata senza numero», che non conosce i sentimenti che suscita negli altri, come la protagonista di uno dei racconti di Heinrich Boll.

Sedici parole è una storia che vede al centro della scena le donne con le loro battaglie interiori nascoste. Un universo femminile, dominato da figure fragili, che si nascondono dietro silenzi enigmatici, pudori silenti, dolori taciuti: il riflesso di una cultura, quella iraniana, nella quale gli uomini hanno un ruolo dominante. I sentimenti sono solo accennati, eppure ne si intuisce la forza dirompente, il peso del tenerli nascosti, un po’ per un pudore, un po’ per scelta.

La vita di Mona, e quella delle donne che rappresentano il suo universo personale, è costellata da non-detti, istanze taciute, ombre e segreti. La stessa gestualità, quel coprirsi la chioma con la stoffa nera del chador, si fa portatrice di emozioni e significati. È come se il velo nascondesse e tenesse al riparo dei nodi irrisolti, che si scoprono lentamente, pur mantenendo sempre qualcosa di inestricabile.

E Nava Ebrahimi, con il tratto delicato e fine della sua penna, cammina in punta di piedi sulle parole, non esplicitando mai ma facendoci sentire sulla pelle il peso delle emozioni suscitano e rievocano. Sono le parole stesse a darci una direzione, a farci entrare lentamente, capitolo dopo capitolo, nella vita di Mona, nei suoi pensieri, nei suoi silenzi, e nel suo bisogno tutto umano di cercare una propria identità dentro la quale sentirsi al sicuro. Ogni parola ricostruisce una parte di ricordi o rivela un particolare significato nella vita della protagonista, e la lingua diventa contenitore di significati, culturali e personali.

L’autrice di Sedici parole riesce a farci intuire le vibrazioni dietro a un pensiero inespresso, la consistenza tangibile di certi silenzi e le scosse di dolore che muovono certe scelte, e lo fa consegnandoci un dialogo fra Oriente e Occidente che affascina nella sua finezza scevra da giudizio.

 

(Nava Ebrahimi, Sedici parole, trad. di Angela Lorenzini, Keller, 2020, pp. 336, euro 18, articolo di Francesca Gosi)