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Chi vince e chi lotta

“Il vecchio lottatore” di Antonio Franchini

di Giuseppe Del Core / 25 gennaio

È durato dieci anni, il silenzio di Antonio Franchini, che avevamo salutato l’ultima volta nel 2010 con Signore delle lacrime edito da Marsilio – opera simbolo, tra le altre, di una narrativa spuria, che incrocia il reportage fino a sfiorare la saggistica. Caratteristica, questa, associabile un po’ a tutta la produzione dello scrittore campano, di cui quest’ultima raccolta rappresenta un esempio aggiuntivo. La stessa rievocazione di Hemingway, certificata ora in Il vecchio lottatore e altri racconti postemingueiani (NNEditore, 2020) a partire dal sottotitolo, non è nuova: lo scrittore-guru americano era comparso già nel 1996 insieme a Mishima nei ritratti di Quando vi ucciderete, maestro? (Marsilio, 1996), ma è evidente che costituisce, più in generale, un’influenza forte che Franchini è stato perfino costretto ad “addomesticare”.

Non ci si lasci però ingannare da questo aspetto, perché la poetica franchiniana si emancipa da quella dei maestri fino a rivendicare un’originalità ben definita e una collocazione letteraria su di un piano assai diverso. Vien quasi da immaginare che Franchini abbia scritto questo libro con una copia dei 49 Racconti a portata di mano e una o più quotes istruttive di Ernest Hemingway, attento, tuttavia, ad astenersi dall’emulazione – anche perché, da lettore caro a Hemingway qual è stato, è consapevole di come proprio questa emulazione abbia distrutto la vena di tanti scrittori negli ultimi sei decenni.

In sostanza Hemingway è presente in queste pagine come una tensione che non si compie perché si è consapevoli che non ha senso compierla, e che resta dunque come un “fantasma”, come una lacrimosa ispirazione – più concretamente, come un tributo personalissimo, nei caratteri del titolo di un racconto (“Non ho scopato con Hemingway”) o nel racconto che rinuncia quasi completamente alla propria dimensione narrativa per farsi esegesi (“Il suicidio dell’indiano”) di un racconto del maestro. Ma, ancora, Hemingway si conserva in questo libro come una “dimensione” quasi assoluta, dai luoghi ai soggetti fino a una visione del mondo che Franchini reinventa e reinterpreta sulla scorta del suo maestro.

È forse significativa e non del tutto casuale, a proposito di questo personalissimo recupero, la scelta di iniziare la raccolta con una storia dall’ambientazione metropolitana (siamo a Milano, in un palazzetto dello sport). “Le Leonardiadi” rappresenta con ogni probabilità una piccola eccezione all’idea compositiva della raccolta, un testo che segnala la propria anomalia a partire dalla narrazione in seconda persona – e che tuttavia, proprio nel suo carattere unico, spicca tra tutti gli altri, impatta col lettore in modo segnante e brilla per l’acutezza di sguardo e per un tipo di sensibilità che non incontreremo più nelle pagine successive. Ma anche in questa unicità, il racconto è un’ulteriore chiave d’accesso alla visione del mondo di Franchini – una visione che si modella sul corpo e che, col mutare del corpo, muta anch’essa negli anni. Accanto alle fatiche e agli imbarazzi di un corpo che invecchia, e il cui confronto coi giovani si vivifica in tutta la sua spietatezza, a legare questo racconto agli altri c’è il tema dell’agonismo – il confronto che si fa scontro, competizione e che decreta vincitori e sconfitti.

«Ti hanno sempre detto che molti momenti della vita, se non la vita nella sua interezza e fino alla fine, assomigliano a un agone o ne sono la metafora più facile, ma tu sai che non è vero, solo una gara assomiglia a una gara, una gara e senza rimedio e senza appello, dritta e asciutta, mentre la vita ha le sue opportunità, le sue occasioni perdute e ricreate». Passaggio esemplare, questo, di quella visione del mondo secondo cui, anche quando si presta la propria vita alla letteratura, le due dimensioni restano ad almeno un grado di separazione, perché la vita è inimitabile e non è quindi metafora di niente. Nella constatazione – sofferta – di quel che la vita comporta, la rilevazione di una fragilità diventa, paradossalmente, indice potenziale di una forza: è forte ciò che può soccombere e invece resiste, ma è forte anche chi accetta i limiti della propria dimensione e, prim’ancora di combatterli, li rispetta.

C’è una frase di Hemingway divenuta molto celebre, tratta da Il vecchio e il mare, che dice: «Adesso non è il momento di pensare a ciò che non hai. Adesso è il momento di pensare a ciò che puoi fare con quello che hai». Questa presa di coscienza dei propri mezzi a partire dai propri limiti è la virtù di ogni grande lottatore (e qui il termine si presta alle suggestioni letterarie a portata di metafora). C’è una nobiltà della forza che si assume dalla consapevolezza della propria scadenza – il fatto, insomma, che ci sono sfide che non possiamo vincere. Ma questa nobiltà fa eco al desiderio che noi abbiamo di lottare per le cose per cui vale la pena lottare. «Il mondo è un bel posto», scriveva Hemingway, «e per esso vale la pena combattere». Nel racconto che dà il titolo al libro, Franchini dice che «molte cose si possono fare per volontà, anche quelle per le quali ci vorrebbe talento». Molte cose – che significa: tante, ma non tutte. Per cui «se c’è qualcosa da vincere, la vince chi ci crede». Le cose appartengono a chi le vuole di più, dice un ragazzo in uno di questi racconti. Ecco: le cose. La natura, spoglia com’è della nostra civilizzazione, vive costantemente la sfida della vita. L’uomo, quando vi si reimmerge, se ne ricorda e si riappropria di una parte di sé.

 

(Antonio Franchini, Il vecchio lottatore e altri racconti postemingueiani, NNEditore, 2020, 256 pp., euro 17, articolo di Giuseppe Del Core)