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Libri

La lezione di Susan Sontag

“Davanti al dolore degli altri”

di Elisa Carrara / 10 aprile

C’è una donna seduta, ha i capelli raccolti, lo sguardo duro e luminoso. I lineamenti sono inaspriti dalla fatica, la pelle è solcata dal sole e dal tempo, anche se la presenza rabbiosa del primo possiamo solo intuirla, perché ciò che vediamo, in realtà, è un’immagine in bianco e nero. In braccio ha un neonato che dorme, un fardello di incoscienza con gli occhi chiusi, che distinguiamo appena, mentre due bambine nascondono il viso dietro le sue spalle, non tanto per infantile pudore, quanto per difendersi dall’ennesima offesa della vita. È il 1936 e Dorothea Lange scatta Migrant Mother, la foto che ritrae Florence Thompson, madre di sette figli, in un campo della California e che diventerà il simbolo della Grande depressione negli Stati Uniti, al punto da ispirare il capolavoro di Steinbeck Furore.

Immagini come questa hanno il potere di radicarsi nella coscienza collettiva, di crearla, persino di sostituirsi alla memoria e rimodellare l’esperienza del passato: «Sempre più spesso, ricordare non significa richiamare alla mente una storia, bensí essere in grado di evocare un’immagine», scrive Susan Sontag in Davanti al dolore degli altri, libro già apparso nel 2003 per Mondadori (titolo originale Regarding the Pain of Others) e ora ristampato da nottetempo, con la traduzione di Paolo Dilonardo. Cosa accade, si chiede la scrittrice in questo saggio denso e breve, quando ci troviamo di fronte alla rappresentazione visiva del dolore? Cosa accade quando vediamo sulle pagine del New York Times un soldato talebano catturato, trascinato e ucciso nella sequenza scattata da Tyler Hicks? E cosa succede alle nostre coscienze quando osserviamo i volti deturpati dalla guerra di Ernst Friedrich? Abbiamo il dovere morale di indignarci, impietosirci, offenderci o il diritto di cambiare sito, chiudere gli occhi, spegnere la tv?

Davanti al dolore degli altri è una riflessione lucida e diffratta sulla guerra (sulla fragilità umana e sulla fotografia) che nasce come «una sorta di appendice a On photography», del 1977. Lo dichiara l’autrice stessa nell’intervista a Tom Robotham del 24 settembre 2002, pubblicata in Italia nella raccolta Oltre la letteratura. Conversazioni con Susan Sontag (Medusa edizioni), curata e tradotta da Luana Salvarani.

Due anni dopo l’11 settembre gli Stati Uniti sono un Paese ferito che per la prima volta è costretto a confrontarsi con il dolore e la sua riproducibilità: non è più il dolore silenzioso e tenace di una singola madre affamata immortalato da Dorothea Lange, e neppure quello lontano che colpisce gli altri, i Paesi esotici e diversi.

Questa volta la sofferenza è vicina, riprodotta ossessivamente, e Susan Sontag non può fare a meno di riflettere su cosa significhi: lo fa ragionando, mettendo in dubbio ciò che proprio lei ha scritto anni prima: «Nella stessa misura in cui creano la compassione, scrivevo [in On Photograpy], le fotografie contribuiscono a inaridirla. Ma è proprio così? Quando l’ho scritto ne ero convinta. Ma ora non ne sono più tanto sicura». L’importanza del lavoro di Susan Sontag è perciò qui, nella capacità di creare canoni con cui tutti, prima o poi, devono misurarsi, compresa lei.

L’evoluzione del suo pensiero la porta a ripercorrere come le immagini della guerra e del dolore siano state accolte, considerate e utilizzate nel corso del tempo, fino ai giorni nostri, in cui la riflessione sembra fermarsi davanti a due certezze speculari: la capacità della fotografia di rendere reale il conflitto, scuotere le coscienze collettive, ferire, indignare, e l’inevitabile perdita del trauma in un ambiente saturo di orrore.

Quanto più il mezzo si avvicina alla sofferenza, tanto più sembra aumentare il nostro distacco. In realtà, sostiene Sontag, distogliere lo sguardo dall’immagine non è necessariamente sintomo di indifferenza, o di estraneità rispetto alla sofferenza osservata. Si può cambiare canale, chiudere il giornale e continuare a condurre una vita normale anche se ciò che abbiamo appena visto è talmente reale e vicino da coinvolgere in un breve futuro noi stessi: la paura, la rimozione e la percezione di non poter far nulla per modificare le cose, sono, infatti, meccanismi altrettanto potenti.

Non è del tutto esatto neppure considerare le fotografie dei validi sostituti alla comprensione della realtà: «Le foto strazianti non perdono necessariamente la capacità di scioccare. Ma non sono di grande aiuto, se il nostro compito è quello di capire. Una narrazione può farci capire. Le fotografie fanno qualcos’altro: ci ossessionano».

Quando Geoffrey Movius chiese a una giovane Susan Sontag perché scrivesse di fotografia, lei rispose che lo faceva perché aveva vissuto l’esperienza di esserne ossessionata. (Oltre la letteratura. Conversazioni con Susan Sontag).

Le immagini ci perseguitano, come spiega in queste acute interviste, perché il mezzo fotografico ha cambiato il nostro rapporto con il passato, storico e personale: la fotocamera ha permesso di vederci quando eravamo bambini, di testimoniare un’infanzia che altrimenti non sarebbe mai esistita, di osservare l’invecchiamento, la malattia e la morte, di sostituire l’immagine alla parola. «C’è una generale decadenza delle abilità narrative, e ben pochi sanno ancora raccontare bene una storia», sostiene nel 1972.

Ma se la nostra ambizione è comprendere le cose, non possiamo affidarci solo a ciò che vediamo: perché, scrive in Davanti al dolore degli altri, «lasciamoci ossessionare dalle immagini atroci», con la consapevolezza che «non possiamo immaginare quanto sia terribile e terrificante la guerra; e quanto normale diventi. Non capiamo, non immaginiamo».

L’ambizione di Susan Sontag, infatti, non è osservare, ma comprendere: e in queste conversazioni (Oltre la letteratura), sature di pensieri, la parola recupera la sua densità. E se nei diari dimostrava di non essere indulgente con sé stessa, in questa raccolta di interviste si avverte quanto il suo rigore intellettuale non risparmi nessuno. A partire da Roland Barthes che non nomina mai la guerra nei suoi lavori, un fatto insolito per chi, come lei, ha intessuto legami profondi con questa parola, fin dall’infanzia, come racconta a Edward Hirsch: «Uno scrittore è uno che fa attenzione al mondo», risponde con fermezza; e lo ripete, qualche pagina dopo, «La cosa più facile per me in assoluto è fare attenzione». E nel caso di Susan Sontag, «fare attenzione» significa soffermarsi sulle parole, sceglierle, affinché siano esatte, giuste; ma anche andare oltre, ammettere gli errori, l’evoluzione del pensiero, i cambi di rotta, interrogarsi, chiedere, esigere da sé stessi e dagli altri e affidare alla letteratura un ruolo ben preciso. C’è una dimensione etica che sottende queste conversazioni e, in generale, tutto il pensiero di Susan Sontag, ma che non è mai vano moralismo: la letteratura che «ci educa alla vita», il romanzo «creatore di introspezione», capace di spalancare il nostro sguardo sul mondo, di rendere gli uomini coscienti; di accettare il conflitto come spazio vitale, creativo, necessario allo spirito critico.