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Cinema

Ubriachi di vita

Su "Un altro giro"

di Elisa Scaringi / 11 giugno

Molti film possono essere considerati belli; solo alcuni lasciano il segno nella storia del cinemaUn altro giro è sicuramente uno di questi, non a caso vincitore del premio Oscar e del premio César come miglior film straniero, oltre che dell’European Film Award per la pellicola, la regia, la sceneggiatura e l’attore protagonista.

Dopo Il sospetto del 2012, Thomas Vinterberg e Mads Mikkelsen, che allora vinse il Prix d’interprétation masculine al Festival di Cannes, tornano insieme; e l’unione fa scintille. La trama sembrerebbe di per sé banalissima. Quattro insegnanti cenano fuori per festeggiare un compleanno e rimangono incuriositi dalle affermazioni dello psichiatra norvegese Finn Skårderud, secondo il quale l’uomo sarebbe nato con un deficit da alcol pari allo 0,05%. Decidono allora di sperimentare la cosa sulla propria pelle nel tentativo di raggiungere effetti positivi in campo sociale e professionale. Nella prima fase si fermano al limite massimo stabilito, poi si spingono fino allo 0,1%, per affrontare alla fine le conseguenze della sbronza vera e propria.

Raccontato così, Un altro giro appare un film frivolo e alquanto insignificante, piuttosto ridicolo e di poco conto, volto a proporre un’apologia dell’alcol e un’esaltazione dell’ubriachezza. In realtà, si tratta di una storia che racconta l’amore in tutti i suoi volti: quando si coltiva un’amicizia, mentre si è in piena crisi di coppia, se si riscopre il proprio mestiere, quando si canta la patria, mentre si incoraggia un giovane inesperto, se si balla la vita. La pellicola compone un inno intorno ai sentimenti che possono celarsi dietro ogni avvenimento e in fondo a tutti i rapporti: dal patriottismo alla figliolanza, passando per l’amicizia e la famiglia.

La teoria alcolica che tira le fila della trama non è altro che una scusa per parlare d’altro: fino a che punto si è disposti a superare i propri limiti? È possibile affrontare ciò che più spaventa della vita? Il dolore e il fallimento conducono solo alla rassegnazione?

Vinterberg, che ha perso la figlia proprio all’inizio delle riprese, si interroga sul tema della vita, costruendovi intorno un racconto originalissimo, totalmente privo di quell’auto celebrazione che lo avrebbe potuto influenzare dopo il lutto. E lo fa partendo da un’idea presuntamente scientifica che ha sotteso l’esistenza di molti personaggi pubblici, da Hemingway a Churchill, introdotti più volte nel film a sostegno dell’intuizione che l’alcol possa avere effetti positivi soprattutto in campo lavorativo.

In Un altro giro non se ne parla, ma la citazione presa a prestito da Finn Skårderud non è altro che uno stralcio della prefazione all’edizione norvegese de Gli effetti psicologici del vino di Edmondo De Amicis, che nel 1880 affrontò l’argomento, con la stessa leggerezza di Vinterberg.

Non un elogio dell’ubriachezza, ma l’attestazione di un’idea. Se inizialmente l’assunzione moderata di alcol può suscitare degli effetti benefici («La nostra percezione è così lucida, la parola così facile, la voce così ricca, sentiamo una traspirazione così gradevole, il complesso di tutte le nostre forze così dolcemente fuso, la vita così piena ad un tempo e così leggera! E la conversazione procede mirabilmente»), la «progressione dell’ebrezza» conduce all’oblio della dipendenza. Proprio come accade nelle tre fasi sperimentate dai quattro amici insegnanti: se lo 0,05% di alcol crea una certa fluidità nell’esistenza, e lo 0,1% ne aumenta la spensieratezza, l’assenza di limiti significa totale perdita di quel controllo necessario per non farsi sfuggire la vita dalle mani.

Triplicità che è al centro anche della filosofia di Søren Kierkegaard, filosofo danese di inizio Ottocento, non a caso citato da Vinterberg a inizio film. La sua teoria sperimentale pone la vita di fronte alla soggettività dell’esistenza che interroga l’uomo sulla possibilità della scelta. Da qui può nascerne angoscia, in rapporto con il mondo, oppure disperazione, in relazione con l’interiorità.

Mads Mikkelsen entra perfettamente nella parte di Martin, uomo insoddisfatto del lavoro e della vita di coppia, incapace di entrare in contatto con il proprio io interiore e con la vertigine della libertà. Con la scusa dell’alcol si rilassa, lasciandosi andare all’ebrezza che sembra cancellare i brutti pensieri. Ma il disagio è sempre in agguato: il trucco sta nella scelta di agire, superando l’insicurezza che può nascere dalle mille possibilità che la vita ci presentano. È allora che Martin viene ispirato dalla fede nella vita, esplodendo in un ballo liberatorio che lascia davvero una bella sensazione in chi viene coinvolto, anche solo attraverso uno schermo.

Mads Mikkelsen inizia con una lacrima e finisce con un salto, che ricorda i suoi trascorsi di ballerino. In mezzo ci sono bicchieri e bicchieri di alcol: eccitanti e divertenti, ma anche drammatici e molto deludenti. Thomas Vinterberg offre così la faccia benevola e positiva de La grande abbuffata. Anche lì ci sono quattro uomini che si uniscono in un esperimento, ma il loro mangiare fino allo stremo aveva come obiettivo la morte. Qui l’alcol ha invece l’effetto contrario, ossia quello di esaltare la vita, nonostante l’angoscia che spesso può attraversarla.

Omaggio anche a Gli idioti di Lars Von Trier, secondo film del movimento Dogma 95 fondato proprio con Vinterberg, dove il tema di fondo è sempre quello della sperimentazione di un comportamento (la simulazione di un ritardo mentale), Un altro giro offre uno spunto per raccontare la maturità di un’esistenza che riscopre se stessa, e la scelta libera che la costruisce.

(Un altro giro, di Thomas Vinterberg, 2020, drammatico, 116’)

LA CRITICA - VOTO 10/10

Un altro giro è un film splendido, commovente e ricco di speranza: quattro uomini si ubriacano di vita, toccando con mano la vertigine della libertà. Thomas Vinterberg ci regala il suo capolavoro, quasi un testamento alla figlia scomparsa giovanissima; e Mads Mikkelsen la sua interpretazione migliore.