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Libri

Nika Turbina, il fiore d’assenzio

La parabola di una enfant prodige

di Lorenzo Gafforini / 16 luglio

«Il motoscafo taglia la laguna increspata verso San Michele, e Nika ride quando gli spruzzi d’acqua la sfiorano. “È bello correre, sembra di essere al luna park, e questa città tutta d’ acqua è come una favola”». Così il 30 maggio 1985 Roberto Bianchin scrive su La Repubblica, in occasione dell’assegnazione a Venezia del Leone d’oro alla poesia. L’edizione di quell’anno vanta nomi sia del panorama italiano sia internazionale.

Nei primi anni Ottanta della selezione degli autori nostrani si occupa Paolo Ruffilli e risaltano subito poeti del calibro di Dario Bellezza, Franco Fortini e Gabriella Sobrino. Tuttavia, il premio è invenzione di un altro vivace scrittore, attento alle novità editoriali e con uno spiccato spirito critico: Franco Zagato. Proprio lui si occupa, invece, di scegliere gli autori stranieri. Quell’anno sono selezioni il senegalese Leopold Senghor e lo statunitense Robert Creeley. Fra queste autorevoli personalità letterarie, emerge un altro ospite totalmente inusuale e che farà molto parlare di sé. Si tratta di Nika Turbina, poetessa sovietica di undici anni che vanta al suo attivo un solo libro, edito in Italia nel 1984 dalle Edizioni del Leone – la casa editrice di Zagato, appunto. Prima di lei tale onorificenza era stata assegnata solo a un’altra scrittrice russa: Anna Achmatova, all’età di sessant’anni e come coronamento per la sua carriera.

Il libro è Quaderno di appunti – oggi introvabile – per la traduzione di Evelina Pascucci e le illustrazioni di Ernesto Treccani. Il libro ha la particolarità di essere uscito in Italia ancora prima che in Urss: infatti, da questa pubblicazione seguiranno ben dodici traduzioni aumentando esponenzialmente così il successo della poetessa. Il libro sarà edito in Unione sovietica solo alla fine del 1984 con una tiratura di trentamila copie – un numero esorbitante per la poesia – che finirà in pochissimo tempo.

In occasione della premiazione la Turbina è accompagnata dalla nonna Ljudmila Karpova e dal russo Evgenij Evtušenko che cura anche l’introduzione all’opera. Il cosiddetto poeta del disgelo è acclamato e rispettato artisticamente in Italia e vanta al suo attivo pubblicazioni con Garzanti, Mondadori, Feltrinelli, Editori Riuniti ecc. Poi, nel 1985 sarà pubblicato anche il suo pometto Mamma e la bomba sempre per la casa editrice di Zagato. È lui stesso a caldeggiare la promozione della poetica della Nika Turbina, dopo averla incontrata per la prima volta nel 1983.

 

Genesi di una enfant prodige

Nika Turbina nasce a Yalta nel 1974. Il padre abbandona subito la famiglia e Nika cresce con la madre scultrice – Maya Nikanorkina – e i nonni. Per anni si vocifera addirittura che sia figlia del poeta Andrei Voznesensky – illazione poi smentita. In particolare, il nonno è Anatolij Nikanorkin, poeta discretamente affermato. La nonna, in compenso, lavora in un albergo e conosce molte personalità letteraria di passaggio.

La Turbina fin dalla tenera età ha problemi respiratori e fatica a dormire la notte. I famigliari le leggono versi delle poesie più svariate per distrarla e non farla agitare ulteriormente. La bambina ne impara alcune a memorie e comincia a ripeterle nei momenti di irrequietezza. Sempre nell’articolo di Roberto Bianchin, la Turbina afferma: «Ho cominciato a comporre versi a voce alta quando avevo tre anni. Battevo i pugni sui tasti di un pianoforte a coda e componevo. I versi sono venuti a me come qualcosa di straordinario che giunge all’ uomo e poi si allontana. Ma per ora questo qualcosa resta, è come un sogno che permane…».

Da queste suggestioni, la poetessa comincia a comporre senza nemmeno saper scrivere. Acconciata à la Mireille Mathieu – come ricorda l’amico Vlad Vasyukhin –, parla in maniera semplice, intuitiva, come se stesse recitando i versi mandati a memoria. Specialmente i nonni si rendono conto dell’eccezionalità del fatto e iniziano a scrivere i componimenti della nipote. Le prime liriche riportate e di cui ancora oggi si ha testimonianza risalgono al 1981, quando ha soli sette anni. Soprattutto grazie ai contatti della nonna, il talento della Turbina riesce a uscire dai confini provinciali di Yalta e ad approdare nelle metropoli dell’Unione sovietica. Grazie al supporto dello scrittore Julian Semënov, il giornale Komsomolka ne pubblica i versi e addirittura viene ospitata in alcune trasmissioni televisive.

La voce giunge così fino a Evtušenko che fin da subito si dimostra scettico nei confronti di un talento così prematuro. È opinione già diffusa all’epoca che le poesie non siano della bambina, bensì dei parenti che cercano semplicemente un modo per ottenere successo. Tuttavia, Evtušenko decide di ricevere la Turbina a Peredelkino, fuori Mosca, nella dacia di Pasternak. Così Evtušenko scrive nell’introduzione a Quaderno di appunti: «Le chiesi di recitarmi dei versi. Tutti i dubbi che si trattasse di una mistificazione letteraria caddero all’istante: solo i poeti possono recitare in quel modo. La sua voce vibra di un suono particolare, direi macerato». E in effetti basta guardare qualche vecchio filmato sul web per comprendere tutta la forza emotiva con cui la Turbina recita, come posseduta dal più alto spirito poetico. Proprio per questo motivo – anche per fugare ogni dubbio – quasi contemporaneamente all’uscita del volume vede la luce anche un disco che raccoglie le sue letture.

Consapevole delle parole, soppesa ogni sillaba con rarissima sensibilità. È stupefacente come nella recitazione – per parafrasare uno dei suoi passaggi più famosi – i versi assumano proprio il peso delle pietre, senza che essi possano lasciare indifferente lo spettatore. A leggere testimonianze di questo tenore vengono alla mente numerosi esempi e talenti letterari precoci: si pensi all’impressione che il giovanissimo Rimbaud lasciava ai suoi interlocutori o lo stupore di chi ascoltava con rapimento l’adolescente von Hofmannsthal. Oppure per citare un riferimento più vicino alla Turbina – la quale frequentava la medesima scuola –, si pensi anche alla straordinaria voce di Maria Cvetaeva che all’età di quindici anni scrisse: «Verrà il tempo dei miei versi/come per i vini pregiati». A proposito, Evtušenko dedicherà alla Cvetaeva – autrice anche de Le notti fiorentine – la straziante lirica Il chiodo di Elabuga – in ricordo del suicidio della scrittrice – contenuta nella raccolta Le betulle nane («Vorrei restare un poco / dove ha vissuto lei, Marina Ivànovna»). Ma tutti gli esempi citati erano adolescenti – o stavamo diventando tali – a differenza della Turbina.

Nei suoi versi si scorge un’inusuale maturità, connotata da una vena spiccatamente tragica. È come se la poetessa avesse vissuto l’intero spettro dei sentimenti, cogliendone ogni sfumatura, senza che però li abbia vissuti. L’ineluttabilità del tempo, la fine di un amore, l’ipocrisia umana; sono solo alcuni dei temi che vengono trattati nel libro. Inoltre, il tutto, è impreziosito da un linguaggio semplice, diretto. I versi sono brevi e abbozzano – Bozza era il titolo letterale dell’opera prima – una serie di scorsi destinati a imprimersi nella mente del lettore. Zagato si interroga sul destino dell’enfant prodige. Si tratta di «una meteora passeggera o continuerà a salire i faticosi e dolenti gradini di quella scala che porta sempre più in lato, anche se nessuno finora ci ha detto dove conduce?».

L’introduzione al volume, inoltre, è ulteriormente arricchita da una poesia inedita dello stesso Evtušenko che rende omaggio alla «bambina-poeta». Il componimento prende spunto dal primo incontro fra i due («sul marciapiede, nelle orme non cancellate di Pasternak  / lasciavi le tue»). Inevitabilmente seguono riflessioni fra le diverse generazioni e l’inevitabile perdita dell’innocenza in cambio della maturità. Ma la padronanza artistica di un letterato esperto è forse barattabile con lo spontaneo slancio vitale della fanciullezza? «Bambini segreti, noi. / Adulti non abbastanza, perché / temiamo d’essere bambini». In Evtušenko c’è tutta la dolcezza d’un padre poetico, capace di amare la propria figlia e al contempo già in grado di soffrirne la mancanza. In questa poesia senza titolo, il poeta di Zima canta la celestiale fragilità della sua beniamina e al contempo sa perfettamente che di fronte a lui vi è innanzitutto una bambina. Evtušenko in quegli anni diviene una guida per Nika Turbina, tanto da essere definito una sorta di “padrino”. Nel repertorio fotografico della poetessa si vedono i due persino al luna park, intenti a giocare e ridere. Turbina chiamava affettuosamente Evtušenko “zio Zenja”. La stima della bambina verso di lui è tale che gli dedicherà direttamente ben due poesie dalla sua prima raccolta: la prima è Anno 1941, ispirata alla prima sceneggiatura del Poeta, Giardino d’infanzia; la seconda, invece, è La guida – voi, un’autentica dichiarazione di affetto e stima verso il suo vate. Questo componimento, in particolare, recita: «La guida – voi / io invece – un vecchio cieco. / Voi – il controllore, / io – non ho il biglietto. / […] La voce umana – voi, / io – un verso dimenticato».

 

Da Quaderno di appunti alla prematura scomparsa

Quaderno di appunti, in particolare, è suddiviso in tre sezioni e ognuna di esse fa riferimento all’anno in cui sono stati composti i relativi versi. La silloge – composta tra il 1981 e il 1983 – è composta dunque da: Sono gravi i miei versi, Sono un fiore d’assenzio e Un quaderno di appunti la mia vita. Dichiaratamente ispiratosi a quest’ultima parte, il titolo del libro è scelto grazie al supporto di Evtušenko, in quanto: «un bambino di nove anni racchiude in sé temi e motivi che, sviluppandosi, formeranno l’uomo. E come in un quaderno d’appunti nascono e si delineano le forme del pensiero poetico, così nel bambino si delineano i tratti della futura maturità morale».

Il volumetto, come anticipato, è un caso editoriale e permette a Nika Turbina di viaggiare per tutto il mondo, tenendo addirittura delle letture in varie università. Stimata da moltissimi autori, avrà il sostegno – fra gli altri – anche di Iosif Brodskij. La seconda raccolta – Scale che salgono, scale che scendono – rimane inedita in Italia e nonostante il successo di pubblico non riesce a eguagliare minimamente il caso editoriale del 1984.

Ormai adolescente, la Turbina non riesce a rinnovarsi e anche venuto a mancare il sostegno di Evtušenko diviene sempre più irrequieta. Il pubblico sembra aver perso interesse nei confronti della bambina-poeta e non apprezza più in maniera così appassionata i suoi componimenti. Oltre a essere l’età di transizione per eccellenza, l’adolescenza porta anche il nuovo matrimonio della madre e la nascita di un secondo figlio. Il rapporto fra la Turbina e la madre peggiore e comincia la fuga della poetessa che sposa – a soli sedici anni – un ricco psichiatra italiano di settantasei anni residente in Svizzera. La relazione dura solo un anno e Turbina ritorna a Mosca con l’intento di cimentarsi nello studio della letteratura e della cinematografia. In quegli anni la sua produzione non è più così prolifica – risulta che in Svizzera abbia scritto una sola poesia – e il pubblico non è più attirato come prima dalla sua opera. La bambina finisce di essere tale e non impressiona più la sua voce, ormai non più acerba e così spontaneamente ispirata.

Gli anni Novanta, inoltre, sono caratterizzata dall’abuso di droghe e alcool che ben presto la portano a una depressione. La notte tra il 14 e il 15 maggio del 1997 tenta il suicidio buttandosi dal quinto piano e riporta danni permanenti alla schiena. Tuttavia, la morte avviene l’11 maggio del 2002, quando cade tragicamente da una finestra morendo sul colpo. Così recita la poesia Bambola nel 1983: «Una bambola rotta. / Non ho cuore in petto, / l’hanno dimenticato, / E in un angolo scuro, inutile / mi hanno abbandonato. / Una bambola rotta, / sento soltanto, sul far del giorno, / sommesso il sussurro di un sogno».

 

L’eredità di Nika Turbina

Ancora oggi la storia della Turbina è avvolta in un dedalo di ambiguità e contraddizioni. La vicenda ha attirato l’attenzione di diversi scrittori e giornalisti fino a giungere ad Alexader Ratner. Nel suo libro uscito in Russia nel 2018 sostiene addirittura che i componimenti dell’infanzia non siano riconducibili alla bambina, bensì a famigliari e amici. Nonostante i dubbi e le provocazioni, è innegabile come la poetessa continui a scrivere durante gli anni, seppur in maniera meno frequente. Questo portò nel 2011 alla pubblicazione postuma di Stala risovat svoyu sudbu – letteralmente Ho cominciato a dipingere il mio destino – che raccoglie l’opera omnia dell’autrice: dalle poesie dell’infanzia alle pagine di diario. Poco prima in Italia era stato anche pubblicato Sono pesi queste mie poesie – edito dalle Edizioni Via del Vento – a cura di Federico Federici che ripropone in una nuova traduzione di alcune poesie di Quaderno di appunti e altre ancora degli anni immediatamente successivi. Come ricorda lo stesso Federici nei suoi saggi critici sulla poetessa – poi pubblicati in un volumetto autonomamente – le pagine del diario svelano la vita della Turbina sotto una luce inedita. Sconvolgente il passaggio in cui scrive: «Tutto quello che dovevo, l’ho detto da bambina, nelle mie poesie. Non c’era bisogno che diventassi donna».