Flanerí

Libri

“Tutta mio padre” di Rosa Matteucci

di Manuela Antonucci / 8 luglio

Si apre nell’ombra apatica di un casa in disuso l’ultima fatica di Rosa Matteucci, tra mucchi di bollette scadute e soffitti infestati da voli molesti di passeri. Il prologo apocalittico di Tutta mio padre (Bompiani, 2010) accoglie le peripezie mentali dell’unica persona ancora in vita tra le pareti domestiche, cantastorie al capolinea che non spreca certo il  fiato in inutili giri di parole: « Qui non c’è più nessuno. Sono tutti morti».

È la Rosa protagonista di questo romanzo dal sapore picaresco a parlare: una volta avvisato il lettore, il sipario si apre in una rutilante successione di eventi au rebour , tutti dedicati ai capitomboli della sua famiglia sgangherata che, caduta in rovina, si ritrova ad affrontare la miseria ricorrendo alle soluzioni più inusuali. Così come ricorda la stessa scrittrice: «La mia vita è stata una partita di Monopoli, giocata ai dadi col padreterno durante una perenne Settimana Santa che invariabilmente si concludeva di venerdì: si arrembava il Calvario, ci si accomodava alla meno peggio e via, la Resurrezione era sempre rinviata a data da destinarsi».

Prende il via in questo modo,  grazie alla penna ambiziosa della scrittrice, la costruzione di un “bestiario” d’alto livello che non delude fino all’ultima pagina.

Un’umanità ingombrante ed eccentrica che brulica dapprima negli spazi fastosi dell’antica villa patrizia dei nonni e poi nell’angustia del cachot, rifugio d’emergenza infestato dalla precarietà e dalla sporcizia, unico molo d’approdo dopo la rovina economica. Si procede dunque nella storia per sagaci antinomie, attraverso rivalità caratteriali calcolate che esplodono nel segno dell’eccesso: dai personaggi secondari delle servette, popolane ignoranti e sensuali dal vago gusto felliniano, all’alterigia abulica della madre che, ossessionata da ininterrotte letture impegnative, rappresenta il modello, a ben vedere venuto male, di una nobiltà estranea alle storture e ai difetti del volgo. Nel bel mezzo transitano, per dare colore alla narrazione, altre figure – a  volte semplici macchiette – che completano il bizzarro albero genealogico attraverso minuziosissimi flashback da manuale, unico baluardo della vita aristocratica prima della decadenza.

Ma il vero protagonista della storia è lui, il padre, ingegnere, cultore delle arti esoteriche, scansafatiche impenitente e giocatore d’azzardo di professione. È lui che dà il la ad ogni battuta che apre la scena di una nuova  – e disperata – frazione di vita. Che sia la fine dei giorni felici o la speranza di un “bissness” che risolleverà le sorti della famiglia, la figura paterna tara gli umori del resto della trama, portandosi addosso tutte le responsabilità del successo del libro. L’occhio della figlia, prima bambina poi adulta, che osserva l’evolversi degli eventi non può che dare conferma di questa dichiarazione d’amore tra le righe. Anche quando la vita può andare solo peggio di quello che si possa immaginare, Rosa, travolta da un crescendo di disavventure al limite del grottesco, resta impassibile, senza mai abbandonarlo, non rinuncia di stare al fianco di un uomo inaffidabile che fa la spola tra Roma e Orvieto con le tasche piene di inutili giocate al lotto, tutte stipate con cura nella giacca da dandy impomatato.

Lo stile si affida al comico con punte esilaranti di satira e puro divertimento, spesso seguite da contraccolpi di lunghe e faticose descrizioni di interni bui, desolati, al limite dell’umana sopportazione.

La cronaca della Seconda Vita dei protagonisti – che è anche cronaca dell’Italietta provinciale che mal si adegua agli antichi retaggi nobiliari – è un susseguirsi di “sfighe da manuale”, tutte superate con stoica sopportazione o soffocate nel vortice surreale della più totale incoscienza.  Il resto, come la consapevolezza, sopraggiunge solo nel finale, con l’incombere della morte e la caduta di quelle fragili certezze a cui Rosa si è aggrappata per resistere agli urti della vita. Qui a prendere la parola è il padre, in una lettera scritta alla figlia nel letto di morte: «Figlia mia, ora ti racconto come è vissuto tuo padre» e in  questo addio che si fa un po’ resoconto di una storia, il monito proposto accontenta il lettore, in toni pacati e nostalgici che tanto si adeguano al finale attraente:« Ogni tanto nella vita bisogna pur sognare, lasciarsi andare alla fantasia, che male c’era? Se non si sogna almeno un po’, come si fa ad andare avanti? Noi abbiamo sognato insieme… Ricordati, Rosa, che la vita è strana e sublime, perché si può sempre e di nuovo inventare e amare».