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“Ho sempre giocato come una donna” di Mario Perdicane

di Roberto Bioy Fälsher / 9 maggio

 


Sarà per l’età che ormai avanza, o forse per il mio passato ingombrante di apolide, ma sempre più spesso mi trovo a rimembrare momenti e soprattutto incontri che, estremizzando forse un po’, da buon neo-romantico quale in parte sono, hanno cambiato, in un modo o nell’altro, il corso della mia esistenza. Potrei citarvi nomi di grandi poeti combattenti come Ernesto Fuser, morto nell’assedio di Vukovar, lui cileno emigrato nei Balcani per sfuggire alla dittatura di Pinochet; di esploratori indomiti come Juan Stein, che sapeva addomesticare gli scarabei egizi con la fisarmonica; di donne meravigliose come la tuffatrice salvadoregna Esperanza Gomez, capace di gettarsi da un palazzo di sei piani e rimanere praticamente illesa; o come la bracconiera indiana Mirabai Rajput, figlia di briganti, cresciuta a pane e sangue di scimmia. Potrei continuare per giorni questo elenco, certo. Ma finirei per ubriacarmi di malinconia lasciando a voi, carissimi lettori, unicamente un senso di vissuto non-vissuto sterile e fine a se stesso. Farò in modo, invece, che sia uno di loro, uno di questi personaggi ai limiti della realtà, a parlare di sé, a raccontare la sua storia. Poiché non credo sia il caso di aggiungere molto altro.

«Andavamo sempre lì, dopo trasferte, stanchi morti: ore di pullman, dopo aver attraversato il paese da una parte all’altra; dopo gli allenamenti, per noia, per abitudine, per inerzia. Era un lavoro mentale a tempo pieno. Occupava la testa. C’era tutto: sacrificio, passione, narcisismo. Non trovavo molte differenze con le ore passate in palestra a ripetere lo stesso movimento, a memorizzare schemi, a tirare. Ore a parlare di nulla, a chiederci perché non giocassimo più di un tot a partita, rendendoci conto dell’assurdità della domanda, ma tacendo la risposta, scontata, a ordinare da bere, a girare canne – il proprietario vedeva e non diceva nulla – che fumavamo nel cortile del bar affermando di non avere meno talento di Bodiroga o di Danilovic, che era tutta questione di fortuna, di categorie: di gente che conoscevi o che non conoscevi. Riconoscerci nella seconda categoria ci spostava in un territorio inesistente dove però esistevamo noi, diventavamo una squadra nella squadra. Appartenevamo a qualcosa. Ci appartenevamo a vicenda. E io ne avevo un bisogno devastante.
E allora tutti i miei fallimenti salivano a galla, dall’università lasciata per una carriera allora promettente, le ragazze che non hanno mai capito cosa volessi, la paura di affrontare il funerale di mio padre sostituita con la mia prima esperienza in macchina con un giovane magrebino».

I lettori più attenti lo avranno sicuramente riconosciuto dalle prime righe. Perché la storia ahimè è nota e la scrittura non lascia spazio a dubbi: Ho sempre giocato come una donna (Transeat, 2010) è l’autobiografia, scritta a quattro mani con il giornalista sportivo Giorgio Pecorelli, di Mario Perdicane – poi diventato Maria Luce –, ex cestista italiano, morto lo scorso anno per una setticemia post-operatoria. A causa della sua coraggiosa decisione di cambiare sesso, Perdicane è diventato un emarginato, un perseguitato, un martire. Ricordo ancora le parole che mi disse il giorno che ci incontrammo per la prima volta, durante una delle numerose presentazioni del suo libro: «Sa professor Falschër, è come se avessi subito una damnatio memoriae da viva. Le mie maglie da gioco sono scomparse dai negozi, le mie figurine cancellate dagli almanacchi, e i miei ex compagni sono irreperibili. Nonostante tutto sono orgogliosa di quello che ho fatto, oggi posso dire di essere finalmente un essere umano libero».
Parole profonde, graffiate sul muro dell’indifferenza. Come quelle incise nelle pagine della sua autobiografia, capaci di lacerare il velo della paura e dell’ipocrisia.

«L’estate in cui mia madre mi beccò che mi masturbavo sfogliando una rivista di un mio amico dove due palestrati si sbaciucchiavano sul collo a vicenda, stavo smettendo di crescere a dismisura. Erano gli ultimi giorni di luglio, faceva un caldo insopportabile. Avevo quindici anni. L’ultima stagione passata a nord, giocando per un una piccola squadra che mi aveva voluto a tutti i costi, e che mi aveva offerto vitto e alloggio e l’istruzione in un prestigioso collegio di Francescani (questo capitolo della mia vita sarà affrontato largamente più avanti): alternavo partite con i miei coetanei ad altre con la prima squadra. In quell’anno mi alzai di venti centimetri: dal metro e settantacinque di quegli ultimi giorni di agosto quando per la prima andavo via di casa – come dimenticare l’abbraccio e gli occhi lucidi dei miei genitori che continuavano a ripetermi: «Vai, vai via, non vogliamo che tu ci veda piangere. Fai vedere chi sei» –, a quando mia madre mi trovò con l’uccello in mano mentre fantasticavo in modo per lei inappropriato, avevo raggiunto il metro e novantacinque (con le scarpe sfioravo i due metri). Durante quell’anno diverse squadre importanti si accorsero di me. Sarei rimasto a giocare lì, ma diversi motivi mi spinsero ad andare via (come già detto: parlerò molto di quella stagione). Spettava a mio padre decidere dove avrei giocato. Ovviamente avevo voce in capitolo, ma mi fidavo di lui. Era il mio manager. Poteva continuare a occuparsi di me, una specie di dilatazione dell’adolescenza, anche se a conti fatti ero ancora un adolescente. Mi piaceva ricevere quel tipo di attenzioni, guardarlo mentre mi sorrideva. Sapere che era felice di me».

Il disagio di avere un corpo che solo in parte è specchio della propria anima, la necessità di mentire a se stessi e agli altri, la scelta finale di lasciar trionfare la propria natura. E ancora l’amore/odio per il padre, le lacrime di una madre che comprende ma non capisce, e il timore dei compagni di squadra di fronte al diverso eppure uguale. Viene da domandarci allora cosa significhi tutto questo, quale ragione ci sia dietro al dolore di essere due cose insieme, maschio nel corpo, femmina nello spirito. È ancora una volta il mito a venirci in aiuto, e in particolare Platone, quando nel suo Simposio descrive perfettamente la natura degli androgini uomini e donne insieme, o uomini e uomini e donne e donne. Divisi a metà da Zeus, vengono costretti a vagare nell’avvenire inesorabilmente e disperatamente alla ricerca della propria metà. Un conflitto eterno che Mario Perdicane ha vissuto sulla propria pelle, come un marchio alfanumerico, fino a pagarne il prezzo più caro.

«Nessuno mi riconobbe. Non avevo più la barba lunga d’un tempo che mi solcava le guance come il cielo stellato di Van Gogh. Il barista sordomuto, che stava sempre dietro al bancone a pulire i bicchieri, mi scrutò con un sorrido sardonico, poi lasciò perdere, non dovevo essere tanto diverso dagli altri clienti abituali. Dopo quasi due anni che non mettevo piede lì dentro, mi sembrò di essere tornato vergine. G. diceva che la possibilità di entrare nello stesso posto come fosse la prima volta era legato a nostre spinte arcaiche verso l’idea di trasmigrazione, e che in qualche modo quel concetto appartenesse a tutti noi. Non gli ho mai creduto, ma non avevo il coraggio di contraddirlo: in fondo stare al suo gioco mi rilassava. Io pensavo solo che eravamo degli alcolizzati e che quello era stato per anni il nostro caro fortino, il tavolo sotto il quale ci nascondevamo per sfuggire al mondo».

Quel che mi resta di quest’uomo così vivo nel suo tormento è il ricordo di quel pomeriggio d’estate – nel congedarsi mi impresse nella memoria il suo splendido sorriso di essere umano sofferente ma fiero – e questo libro, Ho sempre giocato come una donna, una testimonianza limpida che ha il sapore della redenzione.