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Musica

“Fanfare” di Jonathan Wilson

di Mattia Pianezzi / 9 dicembre

Son passati più o meno due anni da quando Jonathan Wilson ha deciso di passare dall’altra parte del vetro acusticamente isolato, da quando si è un po’ annoiato di fare il produttore e ha deciso di imbracciare una chitarra e suonare, ché ci sarebbe stato spazio anche per lui. Dopo aver convinto critica, pubblico e me con Gentle Spirit,a distanza di due anni ci riprova con Fanfare (Downtown, 2013).

Torna l’accortezza estrema di Wilson e la sua attenzione ai dettagli. Tornano gli arrangiamenti e le orchestrazioni ricche, tornano i suoni direttamente dagli anni ’70. Il folk di Neil Young, la psichedelia dei Pink Floyd e il cantautorato lennoniano si mischiano in questa seconda opera da cui tutti si aspettavano molto. Eppure.

Eppure forse è proprio questo: tutti si aspettano tanto, quando sei Jonathan Wilson, e non bastano ammiccamenti a tutto il rock degli ultimi trent’anni e tanto tanto mestiere a sollevare questo disco che suona appunto come una fanfara: una celebrazione di genere, suonata bene, arrangiata alla grande, ma che manca della ruvidezza sognante dell’opera prima Gentle Spirit. Le parti migliori, a mio avviso, restano quelle più psichedeliche e oniriche: la sussurrata “Cecil Taylor” e il suo flicorno soprano che appare quasi di nascosto da una nebbia di arpeggi e vocalizzi (di Crosby e Nash poi, mica due che passavano di là); la successiva “Illumination”, interamente suonata e cantata da Wilson, ha una chiusa da funk lisergico; l’apparente ballata “Lovestrong” si perde negli assoli della parte centrale per poi tornare al tuo fianco, prenderti per mano, riaccompagnarti al tema principale; l’ultima traccia “All the Way Down” è una chiusura perfetta per un album forse un po’ troppo lungo che rischia la sindrome da “troppa-carne-al-fuoco” ma che si fa perdonare in momenti come questo.

La copertina, poi, si potrebbe dire un pelino presuntuosa: sono le mani di Adamo e di Dio nel celeberrimo affresco della cappella Sistina, ma molto più distanti, sullo sfondo di un cielo azzurro con qualche nuvola. L’immagine e la somiglianza all’Onnipotente tanto ricercate dal Buonarroti sono replicate in modo ambiguo: non mostrandosi i corpi, qual è la mano di Dio e quale quella dell’uomo? Se volessimo azzardare una metafora: qual è la mano del creatore, del produttore, e quale quella del musicista? In Fanfare i ruoli si mischiano senza confondersi, e questa è l’anima di Wilson.

Forse esaltato dal grande numero di musicisti e session men presenti nel suo disco (dai citati Crosby e Nash a Jackson Browne a Joshua Tillman) Wilson con Fanfare non riesce però a risultare leggero. Sarà l’ora e un quarto di riproduzione o l’idea del tentativo di fare un omaggio – un perfetto omaggio – a un ben preciso universo musicale che rendono il disco memorabile solo dopo diversi ascolti. Lascia con un po’ di amaro in bocca, con l’idea che il disco sia talmente pieno, arrangiato, perfetto, che qualcosa manchi e sia nascosto da tutti questi addobbi. Sarà per la prossima, Wilson.


(Jonathan Wilson, Fanfare, Downtown, 2013)