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“House of Cards” di Beau Willimon

di Martina Baratta / 19 febbraio

House of Cards è decisamente il cavallo di battaglia di Netflix, rete di streaming di cui abbiamo parlato recentemente in occasione di Orange Is the New Black, ed è la serie che per prima l’ha consacrata come piattaforma del futuro. Sarà perché House of Cards è di per sé una serie intrigante, ma c’è da dire che è stata sicuramente una scelta intelligente da parte di Netflix quella di lanciare una storia che parla di politica e di corsa al potere, un genere che agli americani non dispiace mai ma che è in grado comunque di guadagnarsi il favore di una larga fetta di pubblico.

Il merito, senza nulla togliere agli altri protagonisti, tutti convincenti nei loro ruoli, è di un nome altisonante come Kevin Spacey, attore di grosso – oserei dire grossissimo – calibro che in House of Cards veste i panni del democratico Frank Underwood, primo supporter di Garret Walker, in corsa per il ruolo di Presidente con una promessa: quella di ripagare la fiducia di Underwood con un incarico da segretario di Stato.

Quando Walker sale al potere e nomina un altro segretario al posto di Underwood, quest’ultimo intraprende un percorso di vendetta personale nei confronti di tutti coloro che lo hanno mancato le sue aspettative.

Come nella vita di gran parte degli uomini di potere, dietro di lui operano due donne, entrambe fondamentali: da una parte la moglie Claire che si infiltra spesso negli affari politici del marito con la società no profit di cui è a capo, e dall’altra una giovane giornalista, Zoe Barnes, alla ricerca della svolta. Svolta che arriva nel momento in cui Underwood si serve di lei per attuare il suo piano tramite le pagine del Washington Herald.

House of Cards, che è la trasposizione di una miniserie omonima già andata in onda in Inghilterra, vince soprattutto grazie alle sue ambientazioni, per la maggior parte cupe e opprimenti, che rendono perfettamente l’idea delle zone d’ombra del mondo politico di Washington: grande merito va senza dubbio alla narrazione, piuttosto lineare ma con una particolarità stilistica che cattura immediatamente l’attenzione, ovvero lo sguardo in camera. L’unico a dialogare direttamente con lo spettatore rivolgendosi a lui in prima persona è Frank, incaricato di spiegare senza troppi giri di parole come funziona la sua vita e come sono davvero le persone che la popolano, al di là dei riflettori, delle interviste e delle telecamere: quando le luci si spengono, infatti, nessuno sa veramente chi sono i burattini e chi la mano che li manovra.

Questo dialogo diretto con lo spettatore aiuta a comprendere la storia in quei punti in cui la narrazione avrebbe rischiato di diventare troppo didascalica e crea un feeling con il personaggio di Underwood, uomo composto e algido che non manca però di dare fiducia a una giornalista troppo giovane e avventata e che non si fa problemi a mangiare costolette in un locale da due soldi in un angolo remoto della città.

La seconda stagione di House of Cards è appena ricominciata e l’attesa sembra essere stata ripagata; il successo ottenuto ha dato alla Netflix la conferma che la distribuzione in streaming sembra essere davvero il futuro delle serie tv.