Ciao Edoardo

di / 19 maggio 2010

 

Ieri mi sarei voluto svegliare a Genova, scendere giù al mare e guardare l'immenso porto ad occupare l'orizzonte. Le spalle ai carruggi, per una volta, solo per una volta, senza pensare a Fabrizio De Andrè e ai nani e alle puttane e ai marinai e a tutti quei personaggi che hanno caratterizzato la mia immagine della città della lanterna. Il pensiero sarebbe finito sull'ultimo grandissimo poeta che se n'è andato. “Addio a Sanguineti”, la notizia circola nella rete con la solita velocità, si vocifera persino un omicidio, ma è solo una voce, sembra, “Morto uno dei protagonisti della stagione delle Avanguardie” leggo stamani sul giornale. Non mi viene in mente nessuna poesia ma il giorno che l'incontrai, ormai più di due anni fa, al Salone del Libro di Torino dopo una lectio magistralis sulla traduzione, Sanguineti mi era apparso come un vecchio professore in pensione, con gli occhi malinconici di chi sa che molti dei sogni avuti in giovinezza non si sono realizzati e non si realizzeranno. Mentre partecipavo al triste rito dell'autografo – su un Mikrokosmos comprato al volo allo stand della Feltrinelli – ero incuriosito dall'esile, esiguo, corpo, dalle pieghe e dalle forme del volto, dal naso aquilino e dalle palpebre infossate e pensavo che avevo di fronte a me un pezzo di storia, l'incarnazione o l'umanizzazione di quei nomi che trovavo impressi nelle, spesso ignobili, antologie scolastiche. Pensavo a questo e pensavo al poeta universale e di parte, alla provocatoria candidatura a sindaco, al critico militante, al traduttore e a tutto quello che sapevo e non sapevo di lui. Morto Sanguineti, lutto nella cultura. Non è stato fatto tutto il possibile. No, non voglio pensare alla malasanità. Non mi interessa, non è il momento. Devo pensare alle sue poesie, ne ricordo molte, ma una, almeno una, la devo ricordare a memoria. Glielo devo a lui e anche un po' a me stesso. Mi viene in mente un haiku, la forma poetica d'origine giapponese: «È il primo vino: / calda schiuma che assaggio / sulla tua lingua». Posso fare di meglio ma mi viene in mente giusto una strofa di Ballata delle donne. Dovrebbe fare così: «Quando ci penso, che il tempo è venuto, / la partigiana che qui ha combattuto, / quella colpita, ferita una volta, / e quella morta, che abbiamo sepolta, / femmina penso, se penso la pace: / pensarci il maschio, pensare non piace». No, non mi piacciono poi molto questi versi. Non mi sono mai piaciuti. Eppure… Eppure mi sono rimasti in testa. Continuo a leggere il giornale, anzi i giornali, arrivo persino a comprare “Il Foglio”, ma giusto per leggere Berardinelli. “Il suo momento sono stati gli anni Sessanta, quando i suoi competitori e avversari, dotati degli stessi strumenti ma con animo diverso, erano gli altri due poeti ideologi: Pasolini, appunto, e Franco Fortini, a loro volta in polemica ma con un maggiore rispetto reciproco. Sanguineti invece ha sempre voluto essere e restare solo con la sua idea dell’avanguardia come unico tipo di letteratura novecentesca che avesse prodotto qualcosa di buono.”

Mi viene voglia di sorridere per almeno due motivi: il primo è che ho sempre preferito l'ideologia pasoliniana; il secondo è che forse il suo momento non sono stati gli anni sessanta ma questo maledetto diciotto maggio duemiladieci. Non dimentico gli aggettivi che gli erano stati attribuiti dopo la sua scelta di buttarsi in politica da ultrasettantenne. Quanto “vergognoso” fu per l'opinione pubblica il suo auto-affermarsi ancora marxista, come parallelamente fece anche Saramago in Portogallo, la sua utopia di un mondo migliore, di una società più giusta.

Ieri avrei voluto svegliarmi a Genova e pensare a parole in libertà, far scendere giù persino una lacrima per poi ripiegarmi in una grassa risata e togliere quel senso di vuoto che da due giorni porto dentro.      

   

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