“Canale Mussolini” di Antonio Pennacchi

di / 7 giugno 2010

Canale Mussolini (Mondadori, 2010) è l’ultimo romanzo di Antonio Pennacchi. Oltre ad evocare tristi fantasmi, il titolo del libro può sicuramente generare equivoci, ma solo perché sono in pochi a sapere che ancora oggi esiste un canale che si è chiamato proprio con il nome del capo del fascismo: il Canale Mussolini appunto (se sia ancora il nome ufficiale del corso d’acqua non sono riuscito a scoprirlo, ma molto probabilmente no). Questo costituisce l’arteria principale delle opere di ingegneria idraulica realizzate per bonificare la Pianura Pontina. La sua funzione è quella di convogliare tutte le acque che scendono dai monti Lepini e dai Colli Albani per portarle al mare. Acque copiose che, per la particolare conformazione del terreno, riuscivano con difficoltà a raggiungere la costa e provvedevano invece ad alimentare il sistema della palude che dominava incontrastata su quell’enorme piana, che, in lunghezza, partendo da Anzio e Nettuno, corre ininterrotta fino al promontorio del Circeo ed oltre, a lambire Terracina; ed in larghezza va dal mare fino ai monti Lepini, che la fanno finire all’improvviso, o come dice Pennacchi stesso con un’espressione molto efficace: la interrompono sbucando alla “traditora”. Una pianura sterminata, a quel tempo fatta di boschi fittissimi e impenetrabili, di laghi, stagni e finanche di sabbie mobili. Luogo disabitato dal quale bisognava tenersi a debita distanza soprattutto perché era il regno sul quale imperava un terribile e subdolo “drago”: la malaria (proprio con le fattezze del drago veniva rappresentato ancora nel XVII secolo questo flagello).

Ed è in questo humus, di cui la palude trabocca, che Pennacchi affonda le mani per pescare la vita da cui nascono tutti i suoi romanzi.  E forse non potrebbe essere altrimenti, considerato che l’autore è nato, cresciuto e pasciuto a Latina, città simbolo della bonifica pontina. Un cantore delle gesta di queste genti che realizzarono l’impresa non esiste ancora e Canale Mussolini (ma un po’ tutta l’opera di Pennacchi), in questo senso, colma una lacuna, che a suo avviso è da imputarsi a ragioni puramente cronologiche: nell’agro pontino le generazioni in grado di parlare di loro e dei loro antenati stanno arrivando solo oggi ad avere la capacità culturale ed il riconoscimento intellettuale per farlo.

Il romanzo narra le vicende dei Peruzzi, una famiglia di mezzadri (contadini che coltivavano la terra affittandola e come canone d’affitto corrispondevano al padrone dei suoli metà del raccolto. Il mezzadro usava anche spostarsi, ma sempre nei dintorni dei luoghi in cui era nato e radicato, in cerca di terreni migliori e condizioni più vantaggiose) dedita a lavorare le campagne fertili del ferrarese tra una sponda e l’altra del Po, che viene catapultata nella pianura pontina a vivere e lavorare su di un podere lambito proprio dal Canale Mussolini. A spingerli ad abbandonare la propria terra è un motivo semplice e crudo allo stesso tempo: la fame, che li investe all’improvviso a causa delle politiche economiche scellerate del fascismo e dell’impunità dei potenti di turno, in questo caso dei ricchi aristocratici.

Lo scavo del Canale fu un’impresa titanica (nei secoli passati molti avevano provato a fare la bonifica, anche gli antichi romani, che in materia erano espertissimi, ma tutti avevano miseramente fallito): bisognava correre contro il tempo perché la palude riavanzava ad ogni minima occasione e tutto questo mentre la malaria mieteva vittime. Titanica però fu anche l’opera di colonizzazione e non solo perché un terreno appena bonificato è tutt’altro che fertile: bisognava reinventarsi un presente su di un passato che si era costretti ad abbandonare e in alcuni casi anche a dimenticare. Il tutto in un posto dove gli abitanti dei paesi vicini (Cori, Norma, Sermoneta, Sezze, Fondi, tanto per citarne alcuni) erano ostili. Questi “indigeni”, per secoli, avevano guardato, dall’alto dei loro monti, con la sufficienza di chi guarda un pazzo fare una cosa inutile, chi si affannava a domare la palude. Adesso che finalmente l’opera era riuscita e le terre venivano date, con intenti ben precisi (precisione fascista lui la chiama), a mezzadri del nord che parlavano un’altra lingua e avevano usi e costumi diversi, si sentivano defraudati, tanto che ancora oggi, a più di ottanta anni di distanza, gli effetti di quella inimicizia si sentono ancora.

I meccanismi narrativi del romanzo sono semplici e lineari, forse anche troppo. Il narratore è un personaggio del racconto stesso ed usa una prosa molto vicina al parlato con frequentissimi ricorsi al discorso diretto, dove fa capolino anche un po’ di dialetto. Questa però è una caratteristica di tutta l’opera di Pennacchi che sembra avere una specie di rifiuto dello scrivere raffinato o forbito. Pennacchi sembra tendere alla ricerca della semplicità. Tendenza che può essere vista come funzionale al suo obiettivo finale: mettere al centro la storia.Le storie le aspetta, le sceglie, le cura, le svela, a volte le lucida, ma stando sempre attento che siano fortemente radicate nella realtà, e non ultimo, che siano affascinanti e che valga davvero la pena di perdere tempo a sentire come vanno a finire.

La finzione del romanzo esiste soltanto come stratagemma narrativo che tra l’altro, specie all’inizio del libro, funziona molto poco perché si sente molto la volontà di voler concatenare dei fatti in maniera credibile, con il risultato di vanificare il tutto. In questa finzione esiste però una verità, ed è quella che Pennacchi ci vuole trasmettere, una verità che è unica e indiscutibile, anche se sa benissimo che quella è la sua verità. Sua perché così l’ha vissuta o gliel’hanno raccontata o l’ha scoperta studiando sui libri.

Pennacchi è nato nel 1950 ed ha al suo attivo una bibliografia un po’ scarna: se si eccettuano i saggi ed una raccolta di racconti (tra l’altro molto belli e divertenti) questo è il suo quinto romanzo. Ma siamo convinti che la bravura non si misuri intermini di quantità. Inoltre sembra ancora che si faccia fatica ad accettare la sua figura di scrittore: lui non viene dai salotti buoni della letteratura anzi, fino a qualche anno fa per vivere praticava un lavoro che era tra i più infami ed infamanti, almeno per quei benpensanti che hanno già storto il naso non appena son venuti a conoscenza della candidatura di Canale Mussolini allo “Strega” (per il momento è ancora in semifinale): faceva l’operaio (lavorava all’Alcatel di Latina a fasciare di gomma i cavi elettrici) e ha conseguito la sua laurea in lettere soltanto da adulto. Forse è per questo che rifiuta di scrivere in maniera forbita: non vuole accomunarsi a certa gente.

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