Edoardo Sanguineti: del nostro personale informale…
di Luigi Chiavarone / 11 dicembre 2010
Appena ho letto di quel suo banale finire in un ospedale qualsiasi, come accade a tanti anziani, vecchi, come fu anche per mia madre, alla sua stessa età o giù di lì, nella normale possibile inadeguatezza in cui muore un anziano come tanti, senza tutto quel flusso informe di parole che aveva gravitato per tempo immemorabile, forse ancora adesso, nella sua percezione del sé e del mondo, mi è venuto istintivo, dopo tanti anni, andare a riprendere la mia tesi universitaria di letteratura contemporanea.
“Le neoavanguardie tra ideologia e realtà”, era il titolo che scelsi e che proprio dall’opera di Edoardo Sanguineti, più degli altri esponenti del Gruppo 63 e delle neoavanguardie, da quello che ritenevo d’aver compreso della sua poetica e della sua critica, mi era scaturito.
Non senza un empito di inquietudine, un trattenuto magone, ho preso a scorrerne le pagine, a cercare quelle che lo riguardavano. Si trattava di scandire nuovamente, quasi sentirne il rumore e la precarietà, i pensieri, i sentimenti di una stagione anche personale che, al tempo, fluivano tra policromi impulsi, desiderio smisurato di conoscere, senso inconsapevole di un’epoca che pareva fare un fermo immagine di secoli di storia precedente, tutta in apparenza interpretabile e superabile.
Ripercorrere vite e vicende consumate tra idee, valori, emozioni, privilegiata coincidenza di fase giovanile; l’impressione di rasentare una temporalità esaustiva, libera e piena, un diverso essere, un inedito avvertire materiale e cosmico dell’uomo e della realtà.
Più o meno, l’identico disagio nel ritrovarsi ad ascoltare, o ad evitare di farlo, una musica di quegli anni settanta-ottanta, o rivedere per caso in televisione, per un meccanico vagare delle dita sul decoder, una sera qualunque di stanchezza dopo il lavoro, un film, un documentario del tempo e patire. a fronte di un attuale ben diverso vissuto, l’inevitabile stupore di parte rilevante della vita, di quella vita, trascorsa come circostanze e coincidenza grandi e piccole, tutte occasionali; infinità di attimi talora interminabili quando insopportabili o sprecati, talora conservati come pura impressione quando approssimanti un brivido di proprietà di sé e del mondo, persino di felicità.
Sono riuscito ad andare un po’ avanti, ma, non appena addentratomi nel linguaggio, nei temi che in quella tesi avevo trattato, ho impattato in una difficoltà ulteriore: in quali cumuli e cataste di parole mi sarei aggirato, trattandosi di un tempo in cui di parole si condensava il quotidiano e talvolta se ne annichiliva? Tanto più a fronte di un poeta, di un critico che del linguaggio, della sua inevitabile aggrovigliata informalità faceva non solo mera poetica o prospettiva letteraria, ma condizione d’essere? Temevo che il disavanzo con l’oggi, per quanto non così passivamente introiettato, la resa della parola a mero spunto di utilitarismo o pragmatica semplificazione, mi annientasse di fronte la luce fioca della mia lampada sulla scrivania, nel brusio che mi perveniva da un talk show nella televisione lasciata accesa, per non perdere il mondo, di adesso e che, appunto, nell’intercalare di un telegiornale, accennava appena alla morte del poeta.
Ho proseguito, se non altro perché tutto quello che avevo compreso del suo punto di vista, nel mio modesto approccio universitario e poi forse ancor più, ben al di là di quanto potessi immaginare, ben oltre la sua specificità poetica, alcuni suoi eccessi passionali, forse meno noti delle sue storiche diatribe con Pasolini e l’Officina – la celebrazione di Lucini, che condividevo, o la severità nei confronti di Pascoli, che avversavo – , è stato un contributo fondamentale al mio cogliere elementi fondanti della letteratura e della critica italiana e internazionale – la ricchezza e varietà, l’interdisciplinarità, la rilevanza formale e strutturale, ecc. – e che ho provato, con opportuno “calarsi” metodologico, non di rado confortato da successo, a tradurre ai miei giovanissimi alunni anche di scuola media. Fino a farli appassionare ad una combinazione di segni in apparenza limitati, ma capaci, invece, di sconfinare senza ristrettezze, di valicare l’immediatezza essenziale di linguaggi audiovisivi e mediali a loro più congeniali. Forse anche a frequentarli creativamente.
Scorrendo qualche altra pagina, ho poi, riscontrato, quasi con stupore, quanto Sanguineti mi approssimasse, nel suo itinerario disorganico, l’informe del mio sentire e pensare; che se, da una parte, nella sua personale accezione di avanguardia, liberava, l’opera letteraria dai vincoli di ambito politico della critica eteronima e ne esaltava l’ineludibile autonomia connotativa, dall’altra ne coglieva l’imprescindibile finitezza – si pensi al fondamentale riferimento a Benjamin e al mercantilismo cui inevitabilmente l’avanguardia è destinata – e la contestuale esigenza dell’autore di mettere in permanente discussione il suo ruolo. In senso più ampio, del suo non poter sottrarsi, pur se operando primariamente nell’attraversamento del piano del linguaggio e della riduzione dell’io, dei suoi anditi più indistinti, alla ricerca di una riemersione che avesse comunque tratti rilevanti di incidenza, di impegno addirittura – quasi un ossimoro rispetto alla critica dell’engagement di gran parte dell’avanguardia e di lui stesso – a configurare una modifica effettiva del reale. In altri termini, la consapevole alienazione di una totale frequentazione dell’informale, individuale e relazionale, per devolverne gli elementi del di più di conoscenza ad un’ideologia più compiutamente attrezzata a ipotizzare una nuova realtà sociale, politica, culturale, una più coerente assonanza tra io e società. Per poi, magari, di nuovo scombinarli, in una fisiologica, insita condizione umana destinata, l’erlebnis novecentesco, a sperimentare e, dunque, a rimettersi continuamente in discussione.
La mia idea di Sanguineti, è evidente, è qui fortemente informata da un periodo ben preciso della vicenda letteraria contemporanea, del suo percorso e del mio personale. Volutamente, è tutta concentrata in quell’epifania di percezione che mi si schiuse su quelle pagine universitarie e altri studi collaterali. Eppure ne ho ritrovato un’intensità quasi sopita, semplice ma al contempo fortemente attuale. Mi ha fatto ripensare, anche, a qualche diversità dall’oggi, colta solo “fenomenicamente”, senza presunzioni e pretestuosità valutative. Semplicemente un ricordo, una declinazione dell’essere giovani, cui Sanguineti, con la sua opera, compartecipò significativamente. Per esempio, dopo quattro calci occasionali al pallone in una calda sera d’estate, risedersi sudati su un muretto di periferia, oppure abbandonati sull’erba della prima rugiada di una sconfinata collina, accanto alla propria ragazza, in un quartiere ai margini di Roma ancora capace di sentire il gracidare delle rane dalle marane, il verso del cuculo padrone della notte, e poi blaterare di mille modi di vedere come il mondo dovesse cambiare e, magari, tirare fuori dal taschino una poesia come questa di Edoardo Sanguineti, e regalarla, anche con il suo alito di preveggente inquietudine, a quelli che vivevano con te l’attesa di diventare qualcosa, magari tutti insieme, o agli occhi di quella tua ragazza, che tra tante parole, sognando i sogni che in gran parte non si sarebbero avverati, anche il loro stare insieme per sempre, amava la poesia più di te stesso che gliela recitavi o ambivi a scriverne, per il suo saperla ascoltare:
in te dormiva come un fibroma asciutto, come una magra tenia, un sogno
ora pesta la ghiaia, ora scuote la propria ombra, ora stride,
deglutisce, orina, avendo atteso da sempre il gusto della camomilla, la temperatura della lepre, il rumore della grandine,
la forma del tetto, il colore della paglia: senza rimedio il tempo si è rivolto verso i suoi giorni; la terra offre immagini confuse;
saprà riconoscere la capra, il contadino, il cannone?
non queste forbici veramente sperava, non questa pera,
quando tremava in quel tuo sacco di membrane opache.
Da Erotapegnia, poesie 1956/1959.
Comments